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Introduzione
L’approccio pastorale di AL alla vita delle coppie 
Amoris laetitia: Cap. 1 e 3
Amoris laetitia cap. IV e “le virtù domestiche” FSF
Elogio alla rovescia della Santa Famiglia


INTRODUZIONE
Amoris Laetitia

1) Ecco i 5 punti più rilevanti:

  • il magistero non deve dire tutto: questo antico criterio ecclesiale, che era stato superato con il Concilio Vaticano II, chiamato in fondo a “ridire tutto almeno una volta”, ora ritorna in voga nella pratica magisteriale. Il ministero magisteriale restituisce alla dinamica ecclesiale la “mediazione della contingenza”, senza pretendere di incasellarla una volta per tulle in una “legge generale”; (nn.2-3)
    1. misericordia e giustizia non sono sullo stesso piano, ma la misericordia è la origine e il fine della giustizia. Questo ha conseguenze non piccole non solo sulla “gestione delle crisi” matrimoniali, ma sul modo di intendere il fondamento e il fine della famiglia. Esso non è affidato in primis ai diritti e ai doveri, ma alla esperienza di un dono;
    2. Nella storia della Chiesa si intrecciano due modalità di rapporto con le crisi: una vuole escludere e l’altra vuole integrare. Fin dal Concilio di Gerusalemme la seconda ha prevalso sulla prima, fino a far discendere il senso stesso della Chiesa da questa capacità di integrazione;
  • Una profonda autocritica circa il rapporto della Chiesa con il mondo moderno diventa – indirettamente – una importante affermazione ecclesiologica: il rapporto tra Chiesa e mondo viene reimpostato non sul registro negazione/affermazione dei valori (non negoziabili) ma su quello del riconoscimento dei “segni dei tempi”. Da una logica metafisico/cognitiva/autoritaria ad una logica esperienziale/affettiva/ministeriale. (35-37)
  • Ricondurre tutto all’incontro concreto con la Parola di Dio corne luogo del discernimento, evitando di consegnare il giudizio al linguaggio astratto di norme generali, che diventano “pietre” e che tradiscono il volto materno della Chiesa, iiTigidendolo nella figura accigliata di un giudice. Una “analogia imperfetta” e un “segno imperfetto” (72-73)

2) In sintesi:

    • cambia il magistero: il rapporto tra autorità centrali e autorità periferiche risulta profondamente modificato. Il papa aveva appreso a risolvere le controversie mediante una norma ecclesiale che riservava a sé la decisione. Francesco utlizza la propria autorità per investire di autorità Vescovi e presbiteri. Passa dalla logica del Motu Proprio a quella del Motu Communi… Si supera un “modello ottocentesco” che è reattivo e oppositivo. Da Pio IX a Francesco.
    • cambia il rapporto tra pastorale e giuridico: ad una tradizione che aveva ridotto il campo matrimoniale ad una serie di istituzioni giuridiche, quasi erodendo ogni spazio per la cura pastorale, si risponde con una azione che sta riequilibrando la via giuridica con la via pastorale. Lo spazio che si è aperto appare “abissale”, ma è, in realtà, frutto non solo della tradizione, ma anche del buon senso.
  • cambia il rilievo del soggetto, della coscienza e della storia: in questo percorso di apertura, nuovo rilievo “rivelato” acquista il soggetto. Dio non è solo nella massima esteriorità della legge, ma anche nella intima interiorità della coscienza. Dio corne “intimior intimo meo” provoca ad una riconsiderazione del rapporto tra esteriorità e interiorità, con un recupero della seconda. Potremmo dire che Francesco legge Humanae vitae con gli occhiali di Dignitatis Humanae. Crea una nuova sintesi: Dignitatis Humanae Vitae!

L’approccio pastorale di AL alla vita delle coppie 

  1. Le due coordinate dell’approccio pastorale di AL

1.1 Le coordinate per capire l’approccio di AL all’amore e alla famiglia
Ci stiamo ormai rendendo conto di come AL segni una netta discontinuità nel modo con il quale la Chiesa guarda l’amore umano e la famiglia.
Per cogliere in maniera per quanto possibile oggettiva e pacata in cosa consista questa discontinuità bisogna fare molta attenzione alle prime righe del documento, al punto che letto il n° 1 del testo si potrebbe chiuderlo e tirare da soli le conseguenze pastorali e teologiche.
Il n° 1 presenta infatti due coordinate fondamentali per guardare, accompagnare e lasciarsi accompagnare dall’esperienza dell’amore di una coppia e dell’amore di una famiglia.
«La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa. […] “l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia” ».

Le affermazioni di partenza sono due.

  1. a) La prima è un sussulto di gioia per la chiesa quando essa si trova di fronte a un vissuto di amore. La partenza non è ciò che la Chiesa ha da dare o da dire a una coppia, ma ciò che Dio dona a lei quando si trova di fronte all’esperienza dell’amore, nelle sue differenti modalità. La partenza è dunque un riconoscimento, non una diagnosi né una proposta: l’amore è dono di Dio che fa gioire la chiesa. È qualcosa da accogliere e di cui essere felici. È così sottratto alla Chiesa ogni potere sull’amore e di conseguenza ogni atteggiamento di controllo. È una gioiosa rinuncia al controllo per una gioiosa accoglienza di un dono che la precede e la eccede.

Questo sussulto di gioia non può non richiamare il sussulto del bambino nel grembo di Elisabetta l’anziana nel “sentire” la presenza dell’amore Dio fatto carne nel grembo di Maria, la giovane (Lc 1,41). Elisabetta è segno di una chiesa che sa sussultare alla visita inattesa, non preventivata, non programmata, e talvolta non “regolare” (come nel caso di Maria) del suo Signore.

  1. b) La seconda coordinata non è meno decisiva della prima: “l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia”. Questa seconda affermazione ha due risvolti: c’è un annuncio affidato alla chiesa, definito “l’annuncio cristiano”: c’è, la chiesa ha una parola da offrire sull’amore, una parola seconda (la prima è quella inscritta nell’amore umano stesso); questo annuncio è una parola buona, una parola che fa del bene, una buona notizia. Se prima si trattava di un riconoscimento grato, ora si tratta dell’esigenza ricevuta come missione di assicurare una cura premurosa perché il dono dell’amore sia promosso, accompagnato, custodito e salvato. È l’offerta per l’amore umano di una grazia seconda dentro la grazia prima che già lo connota di per sé.

È piuttosto evidente che l’espressione “buona notizia” rinvia direttamente a EG 164, quando Papa Francesco riassume con parole di una semplicità disarmante la buona notizia che la Chiesa è chiamata ad annunciare, il kerigma: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”. Si noti come in EG ci sono tre verbi (illuminarti, rafforzarti, liberarti) che fanno da base e trovano una corrispondenza sorprendente (una loro coniugazione rispetto all’amore) nei tre verbi del capitolo 8 di AL: discernere, accompagnare, integrare. Discernere è illuminare, accompagnare è rafforzare, liberare è integrare.
AL è connotata da queste due coordinate: il riconoscimento e la cura. Entrambe dislocano la chiesa da una sua autoreferenzialità o da qualunque immaginario di gestione dell’amore della famiglia e la collocano nello spazio della diaconia (dunque in uno spazio pastorale), diaconia dell’Unico che può far nascere amore, custodire amore, salvare amore. Unico che chiamiamo Spirito Santo.
Con due frasi d’entrata viene capovolta la rappresentazione di Chiesa e quella di Dio: una chiesa a servizio dell’amore (e non il suo controllore come forse, pur nelle buone intenzioni, è stata ed è stata percepita, ma diacona) e un Dio non geloso dell’amore umano (come purtroppo a lungo è stato presentato e percepito), ma felice della felicità di ognuno dei suoi figli e figlie.

1.2 Un approccio pastorale?

Siamo chiaramente in una prospettiva pastorale. L’affermazione è stata ripetuta a più riprese, anche per rassicurare coloro che sono destabilizzati da questa postura disarmata e da questa rinuncia al controllo, percepita come una specie di “pensiero debole” della Chiesa sulla questione centrale dell’amore e della sessualità, cavallo di battaglia del suo pensiero forte per almeno gli ultimi due secoli. La prospettiva di AL è pastorale, si dice, e non dottrinale. Non è rimessa in questione la dottrina cristiana sul matrimonio, in primis sulla sua indissolubilità, ma si percorre la strada di affiancarsi alle persone così come sono per accompagnarle e rendere loro disponibile la buona notizia del vangelo nelle loro situazioni concrete, belle o brutte che siano.
Condivido l’affermazione che quello di AL sia un approccio pastorale. Lascio però un punto interrogativo sull’affermazione che non sia dottrinale.
Proviamo infatti a chiarire che cosa intendiamo per “pastorale”.
Se tentiamo di dirlo in termini generali, possiamo affermare che “pastorale” è l’agire ecclesiale finalizzato a mettere le persone e le comunità in condizione di sperimentare su di loro la fecondità della Pasqua, la generosità inesauribile della grazia del Padre, la sua benevolenza per ciascuno: in termini più attuali, la sua misericordia.
Ma così posta, l’affermazione iniziale che AL affronti la questione dal punto di vista pastorale e non dottrinale comincia a vacillare, perché se è pastorale ciò che fa sperimentare la grazia della Pasqua dentro le situazioni della vita umana, ciò che è pastorale è necessariamente dottrinale, perché deve far sperimentare quella Pasqua, non un’altra cosa, deve permettere l’incontro con quel Dio, non con un altro Dio, deve dar carne a quel kerigma, non a un’altra notizia.
Assumiamo dunque l’affermazione che l’approccio di AL sia pastorale, e guardando come AL declina concretamente l’agire pastorale della Chiesa nell’esperienza dell’amore umano e familiare, verificheremo se esso non sia anche dottrinale. Se così non fosse, infatti, collocheremmo l’agire della chiesa da una parte, e le sue dottrine dall’altra.
Dovremo allora anche dire come il particolare approccio pastorale di AL incide sulla dottrina della Chiesa e sulla sua comprensione, perché se la comprensione di quella dottrina non permette più o non permette a sufficienza l’accesso alla grazia di quella Pasqua (che possiamo chiamare misericordia), allora non è più dottrina cristiana, non è più traditio cristiana. Ritorneremo su questo.

  1. Dal deduttivo e dall’induttivo al “discernimento”
    Osserviamo come si configura l’approccio pastorale di AL all’amore e alla famiglia.

2.1 Né deduttivo né induttivo

È evidente che la pastoralità di AL abbandona l’approccio deduttivo rispetto alle situazioni concrete riguardanti l’amore e la famiglia, e questo sia per le situazioni buone sia per quelle cosiddette “non regolari”. L’approccio deduttivo consiste nel ribadire il valore generale (“non negoziabile”, come ci eravamo abituati a sentir dire), nel trasformalo in una legge di comportamento per tutti, e nel codificare la casistica giuridica delle conseguenze qualora questa legge non venga seguita nelle situazioni singole: valore, norma, applicazione della norma, conseguenze della non applicazione della norma, vie di uscita possibili. Il caso dell’amore vissuto da conviventi, da sposati solo civilmente o da persone legate da una seconda unione dopo il divorzio è evidente. L’approccio deduttivo ricorda che per un battezzato solo il sacramento del matrimonio risponde al disegno di Dio e rende moralmente legittimi gli atti matrimoniali, che una seconda unione è contro la volontà di Dio, una situazione che dal punto di vista giuridico è considerata “reato permanente” e di conseguenza rende impossibile l’accesso a due sacramenti fondamentali e all’esercizio dei ministeri nella comunità ecclesiale, con tutta la casistica che ne segue. L’abbandono di questa prospettiva è ribadita a più riprese. Tra le ripetute affermazioni di AL quella più esplicita si trova nel n° 304, persino duro nella sua affermazione:
«È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. Prego caldamente che ricordiamo sempre ciò che insegna san Tommaso d’Aquino e che impariamo ad assimilarlo nel discernimento pastorale: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. […] È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione».
È da notare che questa prospettiva non è applicata in AL solo alle situazione “non regolari”. Il nesso valore-legge-comportamento nella sua rigida concatenazione viene abbandonato anche per le situazioni “regolari”, per l’amore quotidiano vissuto nella famiglia. AL denuncia più volte l’idealizzazione eccessiva dell’amore familiare, che invece di aiutare mette sulle spalle delle famiglie dei pesi che neppure chi glieli mette è capace di portare:
«Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario» (AL 36).
– L’abbandono di un approccio deduttivo dunque è innegabile, ma da cosa viene sostituito nella prospettiva pastorale di AL? Da un approccio induttivo? Il rifiuto di questa scelta è altrettanto netto, ribadito a più riprese: «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (AL 304). Non sono le situazioni concrete a diventare principi e neppure ci si limita ad accondiscendere alle situazioni così come sono, giustificandole con l’argomento della fragilità umana, argomento peraltro molto seduttivo per la cultura attuale connotata da un forte narcisismo. La misericordia non si declina come accondiscendenza alla fragilità e come un colpo di spugna rispetto al passato. Essa domanda di fare verità nei propri percorsi e quando è il caso di avviare il lavoro penitenziale della conversione (AL 78).
– Non dal deduttivo all’induttivo, ma da entrambi questi approcci al “discernimento”. Il termine discernimento appare 35 volte e 10 volte il verbo discernere, termini che intervengono puntualmente ogni qualvolta si tratta di indicare la via pastorale da seguire, l’agire pastorale della chiesa.
Passare dal deduttivo e dall’induttivo al processo di discernimento è molto più impegnativo per la pastorale, ma anche per l’interpretazione della dottrina.

2.2 Il processo del discernimento

Guardiamo dunque come AL mette in atto il discernimento nelle vicissitudine dell’amore umano, abbandonando l’approccio deduttivo senza cadere in quello induttivo. Proviamo, per brevità di tempo e come sondaggio, a considerare come il processo di discernimento inteso come “cura pastorale” (AL 78), viene messo in atto nei confronti dei cristiani che «partecipano alla sua vita [della Chiesa] in modo imperfetto: coloro che semplicemente convivono, coloro che hanno contratto matrimonio soltanto civile, i divorziati risposati». Il punto di riferimento di questo discernimento è “la prospettiva della pedagogia divina” (AL 78).
Mi sembra di individuare quattro passaggi o tappe nell’applicazione del discernimento pastorale di AL.

  1. Il primo consiste nel guardare la situazione per quello che è, dall’interno stesso della situazione (dalla periferia e non dal centro), sospendendo ogni giudizio. Così si constata, ad esempio, che «la scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della semplice convivenza, molto spesso non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti», tra le altre motivi lavorativi o di carattere economico (AL 294; cfr. 40), oppure dall’influenza dell’attuale cultura. Per i separati e divorziati si ricorda che la separazione a volte può diventare moralmente necessaria (241); che i divorziati risposati possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non possono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide» (AL 298). In questo primo passaggio del discernimento si impara a distinguere. Ad es., si dice, una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo (298); altra cosa la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari (298). «I Padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei Pastori deve sempre farsi “distinguendo adeguatamente”, con uno sguardo che discerna bene le situazioni. Sappiamo che non esistono “semplici ricette”» (298).
  2. Un secondo passaggio del discernimento è molto fine ed è di sapore prettamente ignaziano. Richiama quello che diceva Sant’Ignazio: saper vedere Dio in tutte le cose. Questo occhio del discernimento è decisivo. Riguarda la capacità di vedere in ogni situazione di amore, anche la meno regolare, la presenza dei segni del Verbo (77), la presenza della grazia di Dio che opera anche nelle vite di queste persone (291). Questo conduce a evidenziare gli elementi di bene su cui appoggiarsi, sui quali fare leva, che possono condurre a una maggiore apertura al vangelo del matrimonio nella sua pienezza (293). In altri termini si tratta di fare alleanza con quei segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio anche nelle situazioni più imperfette (294). Questo primo occhio permette anche al secondo di esercitarsi con la stessa lucidità: proprio perché si vede il bene, si può avere la libertà di denunciare quello che bene non è, quello che nell’amore umano illude e disumanizza, quello che non è frutto dello Spirito. Troviamo la stessa logica presente in EG: dopo il grande sì all’uomo che è l’annuncio del vangelo della gioia (capitolo 1) papa Francesco pronuncia con grande forza i famosi 8 no di EG, che non sono “contro” le persone, ma tutti a favore del sì di Dio all’uomo (capitolo 2). In AL, ad esempio, si dice che «dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia» (AL 298), riferito a determinati divorzi e seconde unioni. Non si ha paura a chiamare le cose con il loro nome di “fragilità e imperfezione” (296). È chiara la denuncia di ideologie e di condizionamenti culturali (201) tipici del narcisismo della cultura del provvisorio (AL 39 particolarmente efficace e vero).
  3. Il terzo passaggio del processo di discernimento nelle situazioni concrete è di accompagnare la persona a partire dal punto in cui si trova, con approfondimento graduale delle esigenze del vangelo (38), perseguendo il bene possibile in quella situazione. Questo cammino richiede due momenti. Il primo è di aiutare a far sì che le persone prendano coscienza della loro situazione davanti a Dio, facciano verità in se stesse (300). Il secondo consiste nel “nutrire i semi del verbo” (76). Per farlo, come dicevamo prima, si tratta di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazione che non corrispondono ancora o non più al suo [della Chiesa] insegnamento sul matrimonio» (292). Particolarmente significativo è il seguente passaggio: «Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che “un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà”» (305).
  4. L’ultimo passaggio consiste nell’integrare, nel farli partecipi della vita della comunità ecclesiale.
  5. Non sono scomunicati e formano sempre la comunione ecclesiale, dice il n° 243. «Devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili… Sono battezzati, sono fratelli e sorelle». «Si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale» (297). La fine sensibilità di questa integrazione sta nel riconoscere che «lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti» (299). Il che significa che conviventi, persone sposate solo civilmente, separati, divorziati risposati sono portatori di doni e carismi per il bene di tutti. È chiaro che la prospettiva di Familiaris consortio che era arrivata a dire che non sono scomunicati e che fanno parte della Chiesa (prospettiva in discontinuità con le affermazioni precedenti) viene assunta realmente e portata alle sue conseguenze.
  6. L’integrazione è dunque la finalità ultima di tutto il processo di discernimento pastorale (299). Tale integrazione, come sappiamo, vale anche per i sacramenti (n° 300, nota 336), rispettando sempre la logica dei 4 passaggi del discernimento.
  7. Il processo di discernimento mira dunque ad accompagnare le persone a illuminare la propria coscienza perché possano vivere la grazia di Dio nella loro situazione, nella misura delle loro possibilità, cioè del bene possibile. E in questo modo la Chiesa fa quello che da sempre nella sua tradizione ha detto: restituisce l’autorità ultima alla coscienza dei credenti, non si sostituisce ad essa ma la accompagna per illuminarla. La Chiesa si sente chiamata a « dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (AL 37)
  8. I principi di EG messi in atto nella questione specifica dell’amore e della famiglia

Vale la pena notare che AL, uscendo da un approccio deduttivo applicabile per tutti a favore di un processo di discernimento da attuare nelle singole situazioni, non fa altro che mettere a frutto almeno due dei 4 principi enunciati in EG: il tempo è superiore allo spazio (EG 222) e la realtà è più importante dell’idea (EG 231). Per il primo (il tempo è superiore allo spazio) AL invita a «iniziare processi più che ha possedere spazi» (EG 223), chiede di «tenere presente l’orizzonte, adottare i processi possibili e la strada lunga» (EG 225). Per il secondo principio (la realtà è più importante dell’idea) AL fa quello che EG diceva: evita che l’idea finisca per separarsi dalla realtà e che occulti la realtà (EG 231). Questi due principi restituiscono all’amore umano la sua realtà storica, la sua esperienza di cammino esposto alla storia e misurato al limite. È la piena accoglienza della realtà di un amore che fa i conti con la storia. Questa restituzione dell’amore alla storia rimette a fuoco l’obiettivo pastorale: favorire “il bene possibile”:

«Senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno, lasciando spazio alla “misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile”» (AL 308).

– L’orizzonte di AL e le sue conseguenze pastorali erano già tutti in EG, ma in EG potevano passare inosservati. AL li esplicita: coniuga la prospettiva di Chiesa, di fede e di missione di EG (ma in fondo la visione di Dio) nel caso concreto e quanto mai sensibile dell’amore e della famiglia. Così facendo non lascia scampo: mostra tutta la portata di ripensamento e di riformulazione della proposta ecclesiale del vangelo per l’amore umano e la famiglia, riformulazione che non bisogna esitare a chiamare di “riforma”.

Se EG poteva essere un fattore di innovazione silente, AL diventa parlante e questo spiega le reazioni di sorpresa positiva e di forte resistenza che sta provocando e che non potranno che crescere, nella misura in cui, applicandone gli orientamenti, se ne misurerà sempre di più la portata.

Queste reazioni così forti (di forte gioia e di forte resistenza) non possono provenire dal consenso o dissenso rispetto a una semplice questione di strategia pastorale. Confermano che siamo di fronte a un dato che riguarda la comprensione ecclesiale della sua dottrina, della sua traditio, della verità del Dio professato nel suo Credo.

  1. Un approccio pastorale che ridona “carne tenera” alla dottrina

Siamo ora in grado di porci la domanda: l’approccio pastorale di AL, come è stato sopra descritto, è soltanto un approccio pastorale che non interferisce sulla dottrina o è un altro modo di interpretare la dottrina?
È evidente che tale approccio pastorale incide sulla dottrina, nel senso che ne modifica l’interpretazione senza tradirla, anzi la onora proprio liberandone l’interpretazione. Da un sistema chiuso di principi non negoziabili e codificati in leggi di comportamento la trasforma in un patrimonio di vita che cresce nel tempo. Proprio in quanto veramente pastorale l’approccio di AL è veramente dottrinale, perché non è dottrinale nella fede cristiana se non ciò che è realmente pastorale, in forza del centro della fede cristiana stessa, custodito dal Simbolo: “per noi e per la nostra salvezza”.
Solo ciò che è veramente pastorale è veramente dottrinale. In gioco è il volto del Dio di Gesù Cristo. La pastorale nel suo agire testimonia il volto di Dio o la sua caricatura, cioè la dottrina cristiana o la sua deformazione. A sua volta la dottrina custodisce il volto di Dio, ma rendendosi impermeabile alla storia o selezionando la realtà può arrivare a testimoniare l’opposto. Nel caso specifico del vangelo dell’amore e della famiglia, AL assumendo fino in fondo il compito pastorale del vangelo della famiglia restituisce a Dio il nome con il quale si è rivelato, il misericordioso. «È vero, per esempio, che la misericordia non esclude la giustizia e la verità, ma anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (AL 311). In questo modo reinterpreta tutta la dottrina cristiana. Restituisce vita a Dio e carne tenera alla dottrina della chiesa. E pone così le premesse per una chiesa che non separi più ciò che Dio ha unito: dogma e storia, dottrina e vita, vangelo e esperienza umana. Con una espressione cara alla catechesi: fedeltà a Dio e all’uomo. Perché è questo che fa AL: intende misericordia come amore che fa i conti con la storia.
Dobbiamo quindi riconoscere che le obiezioni di chi dice che Papa Francesco tocca la dottrina sono legittime. Egli interviene (non da solo ma con il consenso del discernimento di due sinodi a loro volta basati sul discernimento di una chiesa della base) sull’interpretazione autorevole della dottrina, facendo quello che ha più volte detto, e ultimamente richiamato ai vescovi italiani:
«La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo» (Discorso di Papa Francesco al Convegno ecclesiale Nazionale di Firenze, 10-11-2015).
Possiamo indicare con precisione il perno sul quale poggia la rivisitazione e la rivitalizzazione del cuore della dottrina cristiana, del suo dogma: sta nell’aver trasformato un attributo di Dio (misericordioso), nel tratto qualificante della sua identità, e quindi nel principio ermeneutico per conoscerne e custodirne il volto e di conseguenza per custodire e interpretare il deposito della fede cristiana.
Possiamo allora convenire con chi afferma che AL è una applicazione straordinaria, a più di 50 anni di distanza, del principio pastorale che ha animato il Concilio Vaticano II. E dobbiamo ripetere, in questa tensione feconda tra pastorale e dottrinale, quello che già allora aveva scritto Papa Giovanni XXIII in una frase che chiude il suo Giornale dell’anima, il suo libro di pensieri spirituali: «Non è il vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio».

Conclusione: il compito affidato alla teologia e alla pastorale

Vorrei concludere con due interrogativi.

  1. a) Il primo riguarda il fatto che la prospettiva di AL chiede alla Chiesa di accettare di “complicarsi meravigliosamente la vita” (EG 270, AL 308). L’espressione è paradossale, un vero ossimoro. Essa suppone credenti disposti all’inedito di Dio, forti nella loro fede e nel loro pensiero, ma aperti e disponibili a servire Dio sui sentieri suoi e non propri, sintonizzandosi sui suoi pensieri e non sui propri. In una parola credenti né rigidi né sballottati dal vento, ma semplicemente consistenti. La domanda è la seguente: la chiesa attuale è in grado di reggere una tale meravigliosa complicatezza?

O è troppo?

  1. b) La seconda domanda è rivolta a chi lavora in pastorale e a chi riflette nella teologia. Accogliere AL e sostenere la sua prospettiva suppone di superare la distanza tra chi riflette e chi lavora in pastorale. Siamo pronti? Occorre a questo proposito una santa alleanza, resa quanto mai necessaria per la forte esposizione che AL sta avendo e che la può mettere a rischio. Essa ha bisogno insieme di coraggio nell’agire e di sostegno teologico intelligente. Le due cose insieme diranno che AL non si è sbagliata.

Per ciò che riguarda espressamente la teologia, qui rappresentata, mi limito a ricordare alcune frasi che Papa Francesco ha rivolto in un videomessaggio al Congresso internazionale di teologica della Pontificia Università cattolica argentina.
«Non sono poche le volte in cui si genera un’opposizione tra teologia e pastorale, come se fossero due realtà opposte, separate, che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. […] In tal modo si genera […] una falsa opposizione tra la teologia e la pastorale; tra la riflessione credente e la vita credente; la vita, allora, non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio nella vita. […] Questo incontro tra dottrina e pastorale non è opzionale, è costitutivo di una teologia che intende essere ecclesiale. Le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi c’interrogano. Tutto ciò ci aiuta ad approfondire il mistero della Parola di Dio, Parola che esige e chiede che si dialoghi, che si entri in comunione. Non possiamo quindi ignorare la nostra gente al momento di fare teologia. Il nostro Dio ha scelto questo cammino. Egli si è incarnato in questo mondo, attraversato da conflitti, ingiustizie, violenze; attraversato da speranze e sogni. Pertanto, non ci resta altro luogo dove cercarlo che questo mondo concreto…».
Questo matrimonio, tra teologia e pastorale, s’ha da fare. Siamo disposti?

Citazioni varie

– la strada della chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno, di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero (253)

– formare le coscienze, non sostituirle ((37); presentare le ragioni e le motivazioni (35) toccando le fibre più intime dei giovani… (40).

Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle (AL 37).

– no alla definizione di una nuova normativa generale (300; 3)

– legge della gradualità, che non è la gradualità della legge (295)

– colpa soggettiva e colpa oggettiva; il peso dei consdizionamenti concreti (303); è possibile essere in stato di grazia anche dentro una situazione ritenuta oggettivamente peccato (300, nota 336; esplicito è il 301: « non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante.»; « un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta», AL 302; « è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa.» AL 305).

– l’autorità del sensus fidelium; le famiglie sono i soggetti competenti della pastorale familiare.


“Amoris Laetitia”: Cap. 1 e 3

L’Esortazione apostolica “Amoris Laetitia” acquista un significato speciale nel contesto dell’Anno Giubilare della misericordia, come sottolineato da Papa Francesco nell’introduzione, sia come proposta per le famiglie cristiane a coltivare un amore forte e pieno di valori, sia come incoraggiamento ad essere segni di misericordia e vicinanza per tutte le famiglie ferite.
L’apertura del testo è ispirata alle Sacre Scritture per conferire all’Esortazione “un tono adeguato” e al tempo stesso per considerare la situazione attuale delle famiglie tenendo “i piedi per terra”. Il I Capitolo s’intitola dunque “ALLA LUCE DELLA PAROLA” e risultano immediatamente chiare le ragioni fondamentali di tale scelta: 

“La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza ma anche con la forza della vita che continua (cfr. Gen 4), fino all’ultima pagina dove appaiono le nozze della Sposa e dell’Agnello (cfr. Ap 21,2.9). Le due case che Gesù descrive, costruite sulla roccia o sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27), rappresentano tante situazioni familiari…” (8)

E certo la casa di Nazaret, dove egli è cresciuto, era fondata sulla roccia dell’amore di Dio e del compimento della Sua volontà!

L’Esortazione parte dai due capitoli iniziali della Genesi, in cui viene rappresentata la coppia umana nella sua realtà fondamentale di essere creata ad “immagine di Dio” nella relazione tra le persone e nella fecondità, attraverso cui si sviluppa la storia della salvezza nel corso delle generazioni. In questa luce la coppia diventa immagine per descrivere il mistero di Dio, nella visione cristiana della Trinità, come chiarito nelle parole di san Giovanni Paolo II:

… Il nostro Dio, nel suo mistero più intimo, non è solitudine, bensì una famiglia, dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Questo amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo. La famiglia non è dunque qualcosa di estraneo alla stessa essenza divina.” (10) 

Fr. Gabriele Taborin, citando San Giovanni Damasceno, definiva la Santa Famiglia Trinità terrena e nelle Costituzioni (6) è scritto che “I Fratelli riconoscono nella Santa Famiglia la più perfetta realizzazione su questa terra della comunità d’amore che è la Santa Trinità”.
Dalla concezione della Santa Famiglia quale “icona della Trinità” deriva lo spirito di famiglia, che anima i Fratelli e tutta la famiglia SA-FA, come sintetizzato ancora una volta nelle Costituzioni: “I Fratelli contribuiscono alla realizzazione del piano di salvezza con lo spirito proprio dell’Istituto che è lo spirito di famiglia. Questo spirito si richiama ai legami vitali che univano i membri della Santa Famiglia di Nazaret e la cui origine è la Trinità divina.” (11)
Accanto a questo fondamentale “aspetto trinitario della coppia” Gesù, nella sua riflessione sul matrimonio, ci rimanda ad un altro elemento costitutivo della relazione tra uomo e donna, citando il capitolo 2 della Genesi, dove è messa in risalto l’inquietudine dell’uomo che cerca “un aiuto che gli corrisponda”, capace di una relazione diretta in un dialogo anche tacito, perché nell’amore i silenzi sono spesso più eloquenti delle parole. 

“È l’incontro con un volto, un “tu” che riflette l’amore divino ed è «il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio» (Sir 36,26), come dice un saggio biblico.” (12) 

Tale incontro con un tu in cui si riflette l’amore divino appare luminoso nella relazione tra Maria e Giuseppe, l’uno per l’altro bene donato da Dio, aiuto e colonna di appoggio nella disponibilità al piano del Padre e nel compimento perfetto della Sua Volontà con l’accoglienza amorosa e responsabile del Figlio.
Il testo dell’Esortazione introduce, a questo punto, proprio il tema della costituzione della famiglia, dei figli, virgulti di ulivo intorno alla mensa, come nel canto del Salmista.
Commenta a proposito di questo Salmo (128) Fr. Lino Da Campo: “La benedizione più grandiosa di Dio verso un uomo è quella di dotarlo di una buona famiglia, con una sposa feconda, con numerosi figli, con l’essenziale per sopravvivere. Meraviglioso dono, che Dio ha fatto a Giuseppe, dandogli per sposa Maria e per figlio Gesù, primogenito di tanti fratelli. Meraviglioso esempio di benedizione, che Dio ha dato all’ umanità con il dono della famiglia ideale di Nazaret.”
Il testo dell’Esortazione si sofferma poi su un’altra immagine biblica in cui si sottolinea l’aspetto costitutivo dei figli nell’edificazione della famiglia: 

“Se i genitori sono come le fondamenta della casa, i figli sono come le “pietre vive” della famiglia (cfr. 1 Pt 2,5). È significativo che nell’Antico Testamento la parola che compare più volte dopo quella divina (YHWH, il “Signore”) è “figlio” (ben), un vocabolo che rimanda al verbo ebraico che significa “costruire” (banah)”. (14) 

Il figlio in seno alla famiglia è dunque virgulto e pietra di costruzione, nella Santa Famiglia Gesù cresce come germoglio del tronco di Iesse fino ad essere la pietra, che scartata dai costruttori, è divenuta testata d’angolo. 

Nella famiglia umana in cui visse, Gesù fu solamente figlio. Non assunse mai altra funzione di sposo o di padre. Questo fatto, abbastanza inusuale nella cultura del suo tempo, sottolinea in un modo decisamente chiaro la sua unica condizione umana di figliolanza. Colui che si dichiara Figlio del Padre fu anche unicamente figlio in una famiglia. In questo modo la sua condizione filiale umana si convertì in luogo di rivelazione della sua condizione filiale nella Trinità, e Maria e Giuseppe, con la loro partecipazione al mistero dell’Incarnazione, in un segno e mediazione di colui che per lui è il Padre. (Spirito di corpo e di famiglia, Fr. Teodoro Berzal)

La dimensione fondamentale della famiglia nella sua unità fondata sull’amore reciproco, che viene sottolineata nel primo capitolo, è quella di essere “Chiesa domestica”, sede dell’Eucaristia, della presenza di Cristo seduto alla stessa mensa.

“Indimenticabile è la scena dipinta nell’Apocalisse: « Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me » (3,20). Così si delinea una casa che porta al proprio interno la presenza di Dio, la preghiera comune e perciò la benedizione del Signore…” (15) 

La Santa Famiglia, icona della Trinità, scuola di vita e sostegno amorevole per ogni famiglia umana, custodisce in sé perfettamente la presenza di Dio nel Figlio suo, il quale in tutte le immagini e le icone che la rappresentano, a partire dal quadro ufficiale dell’Istituto, è sempre al punto di convergenza degli sguardi amorevoli di Maria e Giuseppe, è al centro della loro attenzione, in tacito rapporto con entrambi, ed al tempo stesso in comunione con il Padre e lo Spirito Santo. 

Il tema della presenza di Dio nel nucleo familiare viene poi approfondito con la considerazione della famiglia come sede della catechesi dei figli, in particolare nella descrizione biblica della celebrazione pasquale.

“La famiglia è il luogo dove i genitori diventano i primi maestri della fede per i loro figli. È un compito “artigianale”, da persona a persona.” (16) 

Gesù, nel suo percorso di crescita autenticamente umano, ha sicuramente appreso a pregare con i salmi, a frequentare la sinagoga, a partecipare ai pellegrinaggi del suo popolo con Maria e Giuseppe, suoi maestri nella fede. Un compito “artigianale” quello della trasmissione della fede, compiuto con cura amorevole dall’artigiano di Nazaret, da cui Gesù ha voluto apprendere a pregare, a credere, a lavorare, crescendo in età, sapienza e grazia sottomesso ai suoi genitori, fino al raggiungimento della maturità e dell’indipendenza della condizione adulta. 

“Il Vangelo ci ricorda anche che i figli non sono una proprietà della famiglia, ma hanno davanti il loro personale cammino di vita. Se è vero che Gesù si presenta come modello di obbedienza ai suoi genitori terreni, stando loro sottomesso (cfr. Lc 2,51), è pure certo che Egli mostra che la scelta di vita del figlio e la sua stessa vocazione cristiana possono esigere un distacco per realizzare la propria dedizione al Regno di Dio (cfr. Mt 10,34-37; Lc 9,59-62). Di più, Egli stesso, a dodici anni, risponde a Maria e a Giuseppe che ha una missione più alta da compiere al di là della sua famiglia storica (cfr. Lc 2,48-50). Perciò esalta la necessità di altri legami più profondi anche dentro le relazioni familiari: «Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica » (Lc 8,21).” (18)

L’episodio del ritrovamento di Gesù nel tempio, narrato nel Vangelo di Luca, è esemplare sotto questo profilo della vocazione personale del figlio e del progressivo distacco dai genitori.
“Lo perdono per strada, lo cercano, pensano di averlo trovato e si rendono conto di averlo perso per sempre: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49) … Questa vicenda, certo unica, fa contatto con le vicende di tutte le famiglie che perdono i figli, per incidente, per malattia, per droga, o più semplicemente perché il figlio non viene fuori come lo si è immaginato, sognato, educato. Storie di cordoni ombelicali tagliati per la seconda volta con dolore, alcune volte definitivamente. Storie di figli non lasciati mai andare, o al rovescio di figli che non se ne vanno mai. Storie educative fallite, anche se portate avanti con cura. Storie di figli abbandonati, storie di figli che abbandonano. Storie di delusioni per quanto i genitori trasmettono e sembra non sia andato a frutto. Storie di figli che prendono strade senza ritorni. ”
(Elogio alla rovescia della Santa Famiglia, fratel Enzo Biemmi)

Gesù, dopo l’episodio del ritrovamento nel Tempio, torna a Nazaret e completa il suo cammino di crescita sotto la guida di Maria e Giuseppe, fino al raggiungimento dell’età adulta e all’inizio della sua vita pubblica. La vicenda, al di là del suo significato teologico, parla alle famiglie di oggi: ai genitori perché non proiettino sui figli le loro attese condizionandoli; ai figli perché non presumano di essere totalmente indipendenti, prima di diventare realmente responsabili di se stessi, mettendo a rischio il loro avvenire con scelte sbagliate; a tutti noi perché restiamo sempre in ascolto della volontà del Padre nella disponibilità ad assumerla come nostra.
Un pericolo in cui possono incorrere oggi le famiglie, anche unite, è quella di chiudersi in se stesse, senza prestare attenzione agli altri, al contesto sociale, alla comunità ecclesiale, nel caso siano cristiane. La famiglia non è solo quella naturale, pur fondamentale e voluta da Dio, ma lo spirito di famiglia dovrebbe permeare tutte le realtà del vivere insieme: dal luogo di lavoro al vicinato, dalla vicinanza ai fratelli più deboli alla Parrocchia.

“È significativo che quando Gesù chiama i suoi discepoli, crea un gruppo con le caratteristiche di una nuova famiglia, la famiglia messianica, nella quale Dio è Padre e tutti sono fratelli. La condizione essenziale per entrare in essa è l’adesione alla sua persona mediante la fede e l’accoglienza della sua parola (Lc. 8, 19-21). La nuova famiglia che Gesù convoca, manifesta allo stesso tempo, il grande valore e i limiti dell’istituzione familiare che, come le altre istituzioni umane, non può confrontarsi con il valore assoluto del Regno di Dio. Alla nuova famiglia che Gesù crea tutti sono invitati, perfino quelli che sembravano perduti (Lc 14, 21-23; Mt 10,6) ma non tutti rispondono (Lc 14, 18-20). Esiste, dunque, una realtà personale, la fede, che niente ha a che vedere con i dati biologici per fare parte di quella nuova famiglia. I legami vitali creati tra i seguaci di Gesù sono tanto forti che devono superare a quelli della carne e del sangue.” (I vincoli che ci uniscono in Gesù, Maria e Giuseppe. Spiritualità della famiglia Sa-Fa) 

Se fino a questo punto, l’Esortazione si è richiamata al progetto di Dio sugli sposi e sulla famiglia, per sottolinearne la bellezza e la bontà – poiché ogni cosa uscita dalle mani del Creatore è buona e in questo caso è molto buona – il riferimento alle Scritture viene completato con la denuncia delle sofferenze e dell’aggressività, che fin da Caino e Abele segnano la vita familiare.

La Parola di Dio “non nasconde la presenza del dolore, del male, della violenza che lacerano la vita della famiglia e la sua intima comunione di vita … È un sentiero di sofferenza e di sangue che attraversa molte pagine della Bibbia” (20) A tale riguardo l’Esortazione sottolinea che la Parola di Dio “non si mostra come una sequenza di tesi astratte, bensì come una compagna di viaggio anche per le famiglie che sono in crisi o attraversano qualche dolore, e indica loro la meta del cammino, quando Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno » (Ap 21,4).” (22) 

Gesù nella sua stessa famiglia – “una famiglia modesta, che ben presto deve fuggire in una terra straniera (21)” – ha sperimentato dure prove e negli incontri durante la sua vita pubblica si è reso partecipe di molte situazioni familiari, si è commosso davanti al dramma della malattia e della morte che spezzano drammaticamente i legami affettivi, è entrato nelle case e ha inserito i problemi e le tensioni delle famiglie nelle sue parabole. Nel contatto con tanti poveri e affamati che lo cercano, Egli ha compreso la grande importanza al lavoro come mezzo per il sostentamento, la fecondità e la stabilità della famiglia, come pure per lo sviluppo sociale. La sua attenzione per questo problema è chiara nella parabola dei lavoratori in attesa di lavoro sulla piazza del paese (23-25). Tale sensibilità trova le sue radici non solo nella conoscenza delle Scritture (“Della fatica delle tue mani ti nutrirai” Sal.128), ma anche nella sua esperienza diretta a Nazaret, perché il Figlio di Dio, sotto la guida e l’“apprendistato” di Giuseppe, “ha lavorato con mani d’uomo”.
La spiritualità nazareno-taboriniana è particolarmente attenta al valore del lavoro, come è significativamente sintetizzato nel lemma dell’Istituto, “A Nazaret si pregava, si lavorava e si amava” coniata dal Fr. Amedeo Depernex (L’Entretien Familial n. 12, 1930). L’espressione si trovava già formulata nella Regola dell’Istituto del 1882: “Ma è come formando una famiglia che Gesù, Maria e Giuseppe sono i Patroni dell’Istituto; e a Nazaret si pregava, si lavorava e si amavano reciprocamente; perciò, i Fratelli della Sacra Famiglia devono unire la preghiera al lavoro, e riprodurre, nella congregazione e in ognuna delle sue piccole comunità, mediante l’unione dei cuori e le attenzioni mutue, l’unione, il rispetto e l’amore reciproco che causavano l’ammirazione degli angeli nella casa di Nazaret” (art. 125). Fin dall’inizio è stata chiaramente compresa ed espressa l’intima connessione tra queste dimensioni: “Sono tre parole che bisogna capire come se fossero una sola…. bisogna capire che si pregava nel lavoro e nell’amore; che si lavorava nell’amore e nella preghiera e che si amava nella preghiera e nel lavoro” (l’Entretien Familial n. 12, 1930, p.70). Il quadro ufficiale dell’Istituto rappresenta “la Santa Famiglia che lavora in un’atmosfera di preghiera e di amore” (l’Entretien Familial n. 21, 1935, p. 96)…”
Le difficoltà del cammino, illustrate con realismo nella Sacra Scrittura, non tolgono ma anzi aumentano il profondo valore della vita familiare (comunitaria ed ecclesiale) da percorrere con amore e tenerezza secondo la legge dell’amore e del dono di sé, che Cristo ha introdotto come segno distintivo dei suoi discepoli (27) 

“Davanti ad ogni famiglia si presenta l’icona della famiglia di Nazaret, con la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi, come quando dovette patire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che si ripete tragicamente ancor oggi in tante famiglie di profughi rifiutati e inermi. Come i magi, le famiglie sono invitate a contemplare il Bambino e la Madre, a prostrarsi e ad adorarlo (cfr. Mt 2,11). Come Maria, sono esortate a vivere con coraggio e serenità le loro sfide familiari, tristi ed entusiasmanti, e a custodire e meditare nel cuore le meraviglie di Dio (cfr. Lc 2,19.51). Nel tesoro del cuore di Maria ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie, che ella conserva premurosamente. Perciò può aiutarci a interpretarli per riconoscere nella storia familiare il messaggio di Dio.” (30) 

Nel suo scritto “Elogio alla rovescia della Santa Famiglia” Fratel Enzo Biemmi descrive le prove attraversate da Gesù, Maria e Giuseppe nella loro vita familiare, sottolineando che il loro cammino a volte faticoso costituisce un motivo di incoraggiamento, perché sottraendo la famiglia di Nazaret ad un’immagine idealizzata, che rischia di farla percepire lontana nella sua perfezione, la rende una “buona notizia” per tutte le famiglia, in tutte le situazioni:

“La Famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale, non è neppure un ideale da imitare, perché in se stessa unica e inimitabile. E’ però la buona notizia di Dio per noi: ci conferma che la famiglia ideale non c’è, che per tutti c’è una storia complessa da vivere; che non siamo soli, un bimbo è nato nelle nostre famiglie: prendendoci cura di lui, lui si prende cura di noi; possiamo fare di meglio che dominare la vita o pensare che essa ci schiacci: possiamo servirla rimettendoci ogni volta in gioco (sia che succedano cose belle, sia che succedano cose brutte), perché possiamo appoggiarci su una speranza affidabile; ci è indicata la strada del dono di sé reciproco come accoglienza e fecondità del dono di Dio e come via di umanizzazione e di salvezza delle nostre famiglie. L’augurio di Natale per tutte le nostre famiglie sia dunque proprio questo: accogliamo la buona notizia della famiglia di Nazareth e nella gratitudine viviamo nella speranza le nostre storie familiari.”

LO SGUARDO RIVOLTO A GESÙ: LA VOCAZIONE DELLA FAMIGLIA

In questo terzo capitolo, in cui è presentato in maniera sintetica l’insegnamento della Chiesa sulla famiglia, si ricorda innanzitutto che i padri Sinodali sono partiti dallo sguardo pieno di amore di Gesù nell’annunciare le esigenze del Vangelo e con questo stesso spirito si sono proposti di trasmettere il Vangelo della famiglia. L’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia non può, dunque, non ispirarsi all’annuncio di salvezza del Vangelo, senza il quale il mistero della famiglia cristiana non può essere pienamente compreso.

“Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé, ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale (cfr. Mc 10,1-12). La famiglia e il matrimonio sono stati redenti da Cristo (cfr. Ef 5,21-32), restaurati a immagine della Santissima Trinità, mistero da cui scaturisce ogni vero amore. L’alleanza sponsale, inaugurata nella creazione e rivelata nella storia della salvezza, riceve la piena rivelazione del suo significato in Cristo e nella sua Chiesa. Da Cristo attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia necessaria per testimoniare l’amore di Dio e vivere la vita di comunione…(63)

Una vita di comunione e di amore che Gesù ha sperimentato fin dalla sua infanzia nella sua famiglia a Nazaret, dove la comunione degli sposi tra loro e con il Figlio è la più perfetta immagine terrena della Trinità e dove egli ha imparato a comprendere, come vero uomo, il valore dell’unione tra gli sposi alla base di una vita familiare santa e armoniosa. Ciò è significativamente testimoniato dalla sua partecipazione con Maria alla celebrazione delle nozze a Cana, con cui viene inaugurata la sua vita pubblica, dall’amicizia con le famiglie di Lazzaro e di Pietro, ma anche dal suo amore gratuito nelle situazioni in cui tale ideale è negato e ferito, come negli incontri con la samaritana e con l’adultera (64). Un tale esempio è paradigmatico per la Chiesa.

“L’incarnazione del Verbo in una famiglia umana, a Nazaret, commuove con la sua novità la storia del mondo. Abbiamo bisogno di immergerci nel mistero della nascita di Gesù, nel sì di Maria all’annuncio dell’angelo, quando venne concepita la Parola nel suo seno; anche nel sì di Giuseppe, che ha dato il nome a Gesù e si fece carico di Maria; nella festa dei pastori al presepe; nell’adorazione dei Magi; nella fuga in Egitto, in cui Gesù partecipa al dolore del suo popolo esiliato, perseguitato e umiliato; nella religiosa attesa di Zaccaria e nella gioia che accompagna la nascita di Giovanni Battista; nella promessa compiuta per Simeone e Anna nel tempio; nell’ammirazione dei dottori della legge mentre ascoltano la saggezza di Gesù adolescente. E quindi penetrare nei trenta lunghi anni nei quali Gesù si guadagnò il pane lavorando con le sue mani, sussurrando le orazioni e la tradizione credente del suo popolo ed educandosi nella fede dei suoi padri, fino a farla fruttificare nel mistero del Regno. Questo è il mistero del Natale e il segreto di Nazaret, pieno di profumo di famiglia! È il mistero che tanto ha affascinato Francesco di Assisi, Teresa di Gesù Bambino e Charles de Foucauld, e al quale si dissetano anche le famiglie cristiane per rinnovare la loro speranza e la loro gioia.” (65)  

La spiritualità dei Fratelli e dei laici associati nelle Fraternità nazarene sottolinea l’importanza della Parola di Dio in relazione alla “Parola che si fece carne” a Nazaret. Pertanto un’attenzione speciale è dedicata ai Vangeli dell’infanzia e, come scritto nelle Costituzioni (7) “I Fratelli imparano a meditare e a vivere il Vangelo alla luce del mistero di Nazaret dove Gesù cominciò a praticare ciò che poi insegnerà.” Leggere il Vangelo “con occhi nazareni” apre alla comprensione della totalità della vita di Gesù come ad un tutto indissociabile, in cui si rivela l’Amore del Padre.
“Il tempo di Nazaret dove Gesù visse in famiglia con Maria e Giuseppe segna, per così dire, la più grande espressione del cammino d’incarnazione. E’ lì dove si inserì con intensità e realismo nella condizione umana, condividendo la vita semplice e ordinaria della gente del suo tempo in un borgo sconosciuto. Furono quelli gli anni che senza dubbio segnarono di più il suo stile di vita e il suo modo di essere, che appariranno poi in tutta la loro pienezza durante il periodo itinerante di attività missionaria e nel momento supremo della passione e della morte in croce.” (Spirito di corpo e di famiglia, Fr. Teodoro Berzal)

La contemplazione dell’esistenza quotidiana di Gesù, Giuseppe e Maria, nell’affetto vicendevole, nella semplicità, nell’umiltà, nella fatica di ogni giorno, è fonte di ispirazione e di coraggio per i laici della Fraternità nella loro vita di famiglia. 

“ L’alleanza di amore e fedeltà, di cui vive la Santa Famiglia di Nazaret, illumina il principio che dà forma ad ogni famiglia, e la rende capace di affrontare meglio le vicissitudini della vita e della storia. Su questo fondamento, ogni famiglia, pur nella sua debolezza, può diventare una luce nel buio del mondo. “Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi che cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile; ci faccia vedere come è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale”(Paolo VI, Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1964)”(66) 

E’ per questa ragione che il Fondatore raccomandava:Nostro Signore ha detto che là dove è il nostro tesoro, è anche il nostro cuore. Il cuore di ogni cristiano, e soprattutto quello di un Fratello della Sacra Famiglia, dovrebbe essere sovente sotto l’umile tetto di Nazaret, in seno a quell’augusta famiglia che riunisce in se tutte le virtù divine ed umane.” (Fr. Gabriele Taborin, Nuova Guida).
Nella seconda parte del capitolo, l’Esortazione sintetizza l’insegnamento sulla famiglia nei documenti della Chiesa, a partire dalla Gaudium et spes, in cui si promuove la dignità del matrimonio e della famiglia, sottolineando il radicamento degli sposi in Cristo grazie al sacramento del matrimonio.

“Nell’incarnazione, Egli assume l’amore umano, lo purifica, lo porta a pienezza, e dona agli sposi, con il suo Spirito, la capacità di viverlo, pervadendo tutta la loro vita di fede, speranza e carità. In questo modo gli sposi sono come consacrati e, mediante una grazia propria, edificano il Corpo di Cristo e costituiscono una Chiesa domestica (cfr. Lumen gentium, 11), così che la Chiesa, per comprendere pienamente il suo mistero, guarda alla famiglia cristiana, che lo manifesta in modo genuino” (67)

Il sacramento del matrimonio, come sottolineato anche nel Manuale di spiritualità della famiglia SA-FA, dona agli sposi la grazia per costituire la famiglia, vera “chiesa domestica” e continuatrice dell’esperienza vitale della Santa Famiglia di Nazaret.
Dopo aver citato l’enciclica Humanae vitae di Paolo Vi, con riferimento al legame tra amore coniugale e generazione della vita, e l’esortazione apostolica Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, in cui sono state proposte le linee fondamentali della pastorale della famiglia, il testo ricorda come nell’enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est, venga ripreso il tema dell’autenticità dell’amore coniugale, che raggiunge la pienezza alla luce dell’amore di Cristo crocifisso, e come nella successiva Caritas in veritate si evidenzi l’importanza dell’amore come principio di vita nella società. Viene infine ribadito che l’insegnamento della Chiesa, nella sua totalità, affonda le radici nella Scrittura e nella Tradizione, le quali aprono l’accesso ad una “conoscenza della Trinità con tratti familiari.”

La famiglia è immagine di Dio, che […] è comunione di persone. … Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé e ha redento l’uomo dal peccato, non solo ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale, ma ha anche elevato il matrimonio a segno sacramentale del suo amore per la Chiesa (cfr. Mt 19,1-12; Mc 10,1- 12; Ef 5,21-32). Nella famiglia umana, radunata da Cristo, è restituita la “immagine e somiglianza” della Santissima Trinità (cfr. Gen 1,26), mistero da cui scaturisce ogni vero amore. Da Cristo, attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia dello Spirito Santo, per testimoniare il Vangelo dell’amore di Dio”(71)

Si tratta di un fondamento teologico centrale nella spiritualità nazareno-taboriniana in riferimento alla Santa Famiglia come icona della Trinità.

“Il punto focale della spiritualità SA-FA, che è la famiglia di Gesù Maria e Giuseppe a Nazaret, educa lo sguardo per scoprire nel Dio unico la famiglia costituita dalle tre divine persone, introducendoci così nel mistero centrale della fede e della vita cristiana. A tale riguardo già i Padri della Chiesa e gli scrittori cristiani non hanno esitato a ricorrere all’immagine simbolica della famiglia per parlare del mistero della Trinità. Come la famiglia, Dio è una comunità di persone unite dall’amore nel circolo della vita. L’immagine simbolica della famiglia per parlare di Dio ha il vantaggio di metterci davanti ad una realtà concreta e davanti ad un’esperienza umana ampiamente condivisa, ma anche di trattarsi di un insieme di relazioni intersoggettive al livello più profondo come sono la paternità, la maternità, la filiazione, la sponsalità, la fraternità… Dal punto di vista della fede cristiana, esiste non solo una somiglianza simbolica tra la famiglia e la Trinità, bensì una reale partecipazione alla sua vita poiché quello è stato il piano di Dio fin dalla creazione e la redenzione, fino alla pienezza del Regno (cfr. Familiaris Consortio n. 11 e 15).” (I vincoli che ci uniscono in Gesù, Maria e Giuseppe. Spiritualità della famiglia SA-FA – 3.1)

Da questa visione cristiana della famiglia e del sacramento su cui è fondata scaturisce il fatto che il matrimonio non è una convenzione sociale o un semplice rito, ma un dono per la santificazione degli sposi e un segno sacramentale del rapporto di Cristo con la sua Chiesa. Il matrimonio è quindi una vocazione che deve essere preceduta da un profondo discernimento vocazionale. Da un simile discernimento, arduo e impegnativo, non sono stati esenti Maria e Giuseppe. 

“Quando Dio irruppe in modo sorprendente nella vita di Maria per mezzo di un angelo e in quella di Giuseppe durante il sonno, ognuno di essi aveva le sue speranze, le sue aspirazioni, i suoi desideri, e perfino aveva un progetto di vita in comune. Il messaggio dell’angelo turba la giovane Maria, la porta a riflettere e dopo a dare un sì generoso che trasforma tutto il suo universo interno. Da allora crede che niente è impossibile a Dio, perfino che essa, vergine, genererà un figlio che sarà chiamato Figlio di Dio. Anche Giuseppe aveva i suoi piani. Quando si vedono alterati per quello che si dice di Maria, si inquieta, non sa che cosa fare e in quel momento Dio interviene nella sua vita per aprirgli un nuovo orizzonte. Il figlio che Maria aspetta è opera dello Spirito Santo. Giuseppe crede, ubbidisce e riceve nella sua casa Maria incinta di un figlio al quale egli darà il nome di Gesù. Mette così in sintonia il suo progetto con quello di Dio, salvatore dell’uomo.”(I vincoli che ci uniscono in Gesù, Maria e Giuseppe. Spiritualità della famiglia SA-FA – A Nazaret si pregava 3.4.1)

Se in Cristo il matrimonio naturale trova il suo compimento sacramentale, l’Esortazione incoraggia a scoprire i semi del Verbo anche in situazioni imperfette, perché “Il Vangelo della famiglia nutre pure quei semi che ancora attendono di maturare, e deve curare quegli alberi che si sono inariditi e necessitano di non essere trascurati”. L’Esortazione quindi manifesta un’attenta cura pastorale verso i fedeli conviventi o sposati civilmente o divorziati risposati (76-78).

In una lettera dell’attuale Superiore generale, H. Juan Andrés Martos Moro, inviata a tutta la comunità per la celebrazione della S. Pasqua 2016 trovano espressioni due temi di primaria importanza trattati nell’Esortazione: la crisi delle famiglie e la sfida educativa. Dobbiamo riconoscere che i nostri ambienti scolastici, pastorali, sociali e parrocchiali dove opera la missione della famiglia Sa-Fa hanno bisogno della conversione alla misericordia e alla tenerezza. La conversione non solo ha un carattere individuale ma anche comunitario, ecclesiale, pastorale, sociale e parrocchiale. La conversione richiede discernimento, purificazione. riforma delle strutture e modi di fare. Come famiglia dobbiamo compiere un discernimento profondo per sapere quali strutture, abitudini e atteggiamenti hanno bisogno di miglioramento per vivere la comunione come dono di Dio e compito di tutti. In questo senso, tutti dobbiamo fare uno sforzo per trattare con misericordia i difetti, gli errori e i peccati e progredire nella accoglienza cordiale e fraterna tra i membri della nostra famiglia Sa-Fa. Se la nostra istituzione cura il rapporto fraterno e misericordioso tra i suoi membri offrirà testimonianza del frutto della Pasqua. La celebrazione della Pasqua dovrebbe essere anche una buona occasione per manifestare la misericordia nella vita familiare perché la famiglia non è un’immagine idealizzata che raggiungono pochi privilegiati. La famiglia è una istituzione che va dalla sua situazione concreta e, con molte difficoltà, verso la costruzione di un luogo di amore bisognoso di misericordia. L’individualismo, le diverse concezioni ideologizzate della famiglia, l´immaturità affettiva, la fragilità dei legami, le difficoltà economiche e sociali hanno contribuito a offuscare la realtà del matrimonio e a indebolire i legami familiari. Di fronte a questa situazione, abbiamo la sfida di far presente e operante la misericordia di Dio nelle difficoltà famigliari, nell’educazione dei figli, nella difesa dell’identità cristiana della scuola, nel modo in cui siamo coinvolti nel lavoro educativo o nella partecipazione alle associazioni dei genitori. Anche questo è un ministero edificante. »
H. Juan Andrés Martos Moro SG, Pasqua 2016

Dopo aver approfondito il tema fondamentale della generazione dei figli come frutto dell’amore coniugale, l’Esortazione cita le conclusioni dei Padri Sinodali, i quali hanno sottolineato come la sfida educativa sia una delle più impegnative con cui si trovano confrontate le famiglie oggi, anche per la realtà culturale complessa in cui viviamo. In questo ambito la Chiesa è chiamata a collaborare con i genitori nell’adempimento della loro missione educativa
La contemplazione del compito assunto da Maria e Giuseppe nella formazione umana, religiosa e professionale di Gesù ha trovato espressione nel carisma nazareno-taboriniano fin dalle origini, nella visione del Fondatore, in cui si integrano varie attività, che hanno nello stesso tempo una dimensione cristiano-ecclesiale (liturgia, catechesi) e umano-sociale (educazione nella scuola), e nell’attività dei Fratelli al servizio dell’educazione cristiana nelle parrocchie povere di campagna. La famiglia SA-FA, nella fedeltà al carisma e nella dinamicità dell’inculturazione, continua ad inserirsi nella missione della Chiesa locale, negli ambiti dell’educazione cristiana, della catechesi e dell’animazione liturgica. 

“…alcuni, contemplando l’azione silenziosa e discreta, ma importante nella linea dell’educazione e configurazione della personalità di Gesù, hanno creduto vedere nell’attività congiunta dei genitori di Gesù un riflesso dell’azione dello Spirito Santo. Non è meno suggestiva, e forse anche quella che può essere più fondata teologicamente, l’intuizione che vede congiuntamente in Maria e Giuseppe il volto di Dio che è Padre e Madre. L’amore infinito che il Figlio riceve dal Padre nel seno della Trinità prende forma umana nella tenerezza paterna e materna di Giuseppe e Maria verso Gesù. Le loro premure, le loro attenzioni e i loro servizi e la loro azione educativa, ma anche tutte le decisioni che dovettero prendere per proteggere e salvaguardare la loro famiglia, permettono di intravedere, grazie alla santità di entrambi, il Padre dei cieli che tutto crea e conduce con sapienza per il bene delle sue creature…” (Spirito di corpo e di famiglia, Fr. Teodoro Berzal) 

Con lo sguardo rivolto al Padre, che vuole solo il bene dei suoi figli, il capitolo III dell’Esortazione, pur non ignorando le sfide con cui si trova oggi confrontata la vita familiare, si chiude con una nota di ottimismo evangelico e con l’affermazione che la Chiesa stessa è famiglia di famiglie, in una reciprocità per cui la Chiesa è un bene per la famiglia e la famiglia è un bene per la Chiesa

Con intima gioia e profonda consolazione, la Chiesa guarda alle famiglie che restano fedeli agli insegnamenti del Vangelo, ringraziandole e incoraggiandole per la testimonianza che offrono. Grazie ad esse, infatti, è resa credibile la bellezza del matrimonio indissolubile e fedele per sempre. Nella famiglia, “che si potrebbe chiamare Chiesa domestica” (Lumen gentium, 11), matura la prima esperienza ecclesiale della comunione tra persone, in cui si riflette, per grazia, il mistero della Santa Trinità. “È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l’amore fraterno, il perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l’offerta della propria vita” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1657)” (86)

Per ricondurre ad una sintesi la complessità dei temi trattati in questo capitolo, che spazia dalle profondità del disegno di Dio sulla famiglia alla sua situazione attuale, per molti aspetti difficile ma non priva di vitalità evangelica, si può concludere con una breve riflessione sulla Santa Famiglia, augurandoci, come nella Lettera alle famiglie, che essa sia “l’inizio di altre famiglie sante”. 

“… non si tratta di presentare un modello esterno di imitazione, quanto piuttosto di procurare che il mistero della Santa Famiglia, in quanto segno vivo della Chiesa, svolga in essa dal di dentro, per mezzo dell’azione dello Spirito Santo, tutta la sua virtualità e capacità di animazione. La Santa Famiglia, in quanto è in primo luogo vangelo vissuto e già realizzato, fa emergere e propone alle famiglie, alle comunità, alle persone e ai gruppi … alcuni valori che vanno oltre qualsiasi proposta culturale e sociale. Nonostante la fragilità e la crisi che sta attraversando nel mondo contemporaneo, la famiglia è chiamata dal punto di vista cristiano a formare una comunità di persone, a mettersi al servizio della vita, a partecipare allo sviluppo della società e della vita e missione della Chiesa. (cf. Familiaris Consortio). In questo contesto la Santa Famiglia si propone come “l’inizio di altre famiglie sante” (Lettera alle famiglie n. 23). Essa che è la rappresentazione originale e la più umile della Chiesa, accompagna la famiglia, chiesa domestica, a dare la risposta di ognuno dei suoi membri alla chiamata di Dio, all’accoglienza della Parola per viverla e incarnarla nel mondo, nel lavoro e nella sofferenza di ogni giorno, e nella condivisione delle gioie e delle preoccupazioni. La sua presenza vicina e accessibile si propone sempre come riferimento di vita e aiuto per fare crescere il Regno di Dio nelle persone e nel proprio ambiente: casa, lavoro, istituzioni sociali, culturali, ecc.” (Spirito di corpo e di famiglia, Fr. Teodoro Berzal)

Alberta Sciachi
C.S.N.T.


AMORIS LAETITIA cap. IV
e “le virtù domestiche” FSF

Il capitolo IV di Amoris Laetitia ci offre l’occasione di riprendere la riflessione sulle “virtù domestiche” o “piccole virtù nazarene” che noi contempliamo nella Santa Famiglia di Nazaret e che sono presenti nella nostra spiritualità nazarena.
Il nostro desiderio si fa preghiera quotidiana:

O Dio, nostro Padre, che nella santa Famiglia ci hai dato un vero modello di vita, fa che nelle nostre famiglie fioriscano le stesse virtù e lo stesso amore perché riuniti insieme nella tua casa possiamo godere la gioia senza fine. Per il nostro Signore Gesù Cristo Tuo Figlio che è Dio e vive regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen

Questa preghiera chiede di poter vivere quello stile di vita di Gesù, Maria e Giuseppe a Nazaret vivificato dall’amore e illuminato da quelle virtù che ne fanno una scuola di umanizzazione. Avrà come frutto la pace e la gioia del cuore più forti di ogni difficoltà.

La vita ci insegna che le virtù che ci sostengono nel nostro cammino non sono solo le ‘grandi’ virtù teologali (fede, speranza, carità) e quelle cardinali (prudenza, fortezza, giustizia, temperanza), ma anche una moltitudine di ‘piccole’ virtù della vita quotidiana in un contesto di relazioni che possiamo chiamare domestico. Sono quelle virtù che potremmo dire “utili” per la vita quotidiana come l’ordine, la puntualità, la laboriosità, l’attenzione all’altro, la disponibilità all’ascolto, la sincerità, la gratitudine, la riconoscenza, ecc.). Tutte virtù che in ultimo termine sono espressioni della carità e quindi dell’amore descritto da San Paolo nella prima lettera ai Corinti (1 Cor 13-1ss)
Le virtù che chiamiamo “virtù domestiche” sono come l’humus di una vita familiare in cui ciascuno si orienta all’altro in un certo modo, quello che chiamiamo appunto ‘familiare’. Nella nostra sensibilità le riuniamo sotto un’espressione molto dinamica che chiamiamo “spirito di famiglia” perché questo spirito è come l’anima e il sostegno di tutte le relazioni che creano famiglia.
San Francesco di Sales ci offre di queste virtù una definizione straordinaria: le piccole virtù sono “la fine pointe de la charité” che potremmo tradurre con “le piccole virtù sono la delicatezza della carità”.
Non si applicano necessariamente a cose grandi, ad eventi straordinari, ma anche e soprattutto a cose ‘piccole’, alle piccole difficoltà, delusioni, contraddizioni della vita quotidiana. Sono queste virtù che possono generare quella relazione familiare, quello spirito di famiglia che vive di fiducia, di cooperazione, di reciprocità.
La comunione famigliare, la piccola chiesa domestica è, in certo senso, il crogiolo dove ogni virtù diventa perla preziosa e definisce l’identità della persona che ama e che è contraccambiata.
È praticamente impossibile fare un elenco delle virtù domestiche, ma è possibile accentuarne qualcuna in base all’esperienza che viviamo.
Mi ha colpito un lavoretto che una maestra del collegio Sacra Famiglia di Torino ha fatto fare ai suoi alunni di prima elementare di età compresa tra 6 e 7 anni.
Ha fatto scegliere ad ognuno una parola tra le tante che aveva cercato per indicare come creare famiglia.
Ogni bambino ha scelto una parola ascoltata a casa o a scuola.
Questo è il risultato sorprendente perché spontaneo e base per una vera evangelizzazione.

Le parole scelte dai bambini per creare una famiglia sono state:

AMORE

BELLEZZA   BISOGNO

CASA             COMPRENSIONE    CRESCITA    CUORE

DIFETTI         DOLCEZZA

FESTA            FIDUCIA       FUTURO

GIOIA            GRAZIE

IMPEGNO     INCONTRO

PACE              PAZIENZA   PERDONO    POSSO

SCUSA  SENTIMENTO     SINCERITA’   SODDISFAZIONE SORRISI SQUADRA

VALORI        VOLTI FELICI

Se ci immedesimiamo nel cuore e negli occhi di questi bambini, troveremo che queste dovrebbero essere le virtù da coltivare nelle nostre famiglie.
Fr. Stéphane Baffert, che fece dipingere il quadro ufficiale della Sacra Famiglia che si trova a Villa Brea (Chieri a 30 km da Torino), ha scritto pagine importanti sulle piccole virtù nazarene. Per lui le piccole virtù sono l’espressione dello “spirito di famiglia” che è un modo particolare di vivere la carità cristiana.
Amoris Laetitia, nel capitolo IV, legge l’amore che fa vivere la famiglia alla luce del cantico della carità che troviamo al capitolo 13 dei Corinti.
Nel luglio 2011 sono state pubblicate dai Fratelli delle linee guida sulla Spiritualità della famiglia SAFA che ha come titolo “I vincoli che ci uniscono in Gesù, Maria e Giuseppe”.
Mettere in relazione le virtù come descritte in Amoris Laetitia, cap. IV e le virtù nazarene della spiritualità SAFA ci offre la sorpresa di come Amoris Laetitia può essere il commento della nostra spiritualità che sgorga dall’ imitazione di Gesù, Maria e Giuseppe.
Comprendendo questa relazione, ogni famiglia può illuminarsi con la luce di Amoris Laetitia.
Scegliamo ora qualche parallelismo seguendo la struttura di Amoris laetitia capitolo IV.

AL – Amoris Laetitia – cap. IV (sono citati, sovente solo in parte, i nn. 89 – 164).

In grassetto sono stati evidenziati alcuni passaggi considerati particolarmente significativi).

I vincoli che ci uniscono o altri commenti – si leggono su testo rientrato e in corsivo.

(Tra parentesi sono indicati i capitoletti da cui si è scelto il commento)

L’amore nel matrimonio

  1. Tutto quanto è stato detto non è sufficiente ad esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci soffermiamo in modo specifico a parlare dell’amore.
    Non potremo incoraggiare un cammino di fedeltà e di reciproca donazione se non stimoliamo la crescita, il consolidamento e l’approfondimento dell’amore coniugale e familiare.
    In effetti, la grazia del sacramento del matrimonio è destinata prima di tutto «a perfezionare l’amore dei coniugi». Anche in questo caso rimane valido che, anche «se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,2-3).
    In AL si parla del Vangelo del matrimonio e della famiglia.
    Giovanni Paolo II parlava del Vangelo della famiglia.
    Si può riconoscere che AL vuole mettere in risalto in primo luogo il nucleo più intimo della famiglia costituito dai coniugi.
    I vincoli che ci uniscono (al numero 3.2.4) ripropongono il pensiero di Giovanni Paolo II che usò questa espressione (Vangelo della famiglia) nella sua Lettera alle Famiglie (1994).
    Con essa si pretende di sottolineare la rivelazione e la verità cristiana che rispondono, rispettivamente, alla problematica pastorale e alla crescita spirituale.
    La Santa Famiglia è il luogo del Vangelo vissuto e già realizzato; essa fa emergere e propone alle famiglie, alle comunità, alle persone e ai gruppi valori che vanno oltre qualunque determinazione culturale o sociale.

Il nostro amore quotidiano: AL 90

  1. Nel cosiddetto inno alla carità scritto da San Paolo, riscontriamo alcune caratteristiche del vero amore:
    «La carità è paziente, / benevola è la carità; / non è invidiosa, / non si vanta,/ non si gonfia d’orgoglio, / non manca di rispetto, / non cerca il proprio interesse, / non si adira, / non tiene conto del male ricevuto, / non gode dell’ingiustizia / ma si rallegra della verità. / Tutto scusa, / tutto crede, / tutto spera, / tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7).
    Questo si vive e si coltiva nella vita che condividono tutti i giorni gli sposi, tra di loro e con i loro figli. Perciò è prezioso soffermarsi a precisare il senso delle espressioni di questo testo, per tentarne un’applicazione all’esistenza concreta di ogni famiglia.
    L’inno alla carità è pure il criterio che determina la veridicità di ogni virtù che esprime l’amore.
    Ci basta sostituire la parola carità con il nome di una virtù domestica e sapremo subito come va vissuta.

Pazienza AL 91-92

  1. […] Si mostra quando la persona non si lascia guidare dagli impulsi e evita di aggredire. È una caratteristica del Dio dell’Alleanza che chiama ad imitarlo anche all’interno della vita familiare. I testi in cui Paolo fa uso di questo termine si devono leggere sullo sfondo del Libro della Sapienza (cfr 11,23; 12,2.15-18).
    Nello stesso tempo in cui si loda la moderazione di Dio al fine di dare spazio al pentimento, si insiste sul suo potere che si manifesta quando agisce con misericordia. La pazienza di Dio è esercizio di misericordia verso il peccatore e manifesta l’autentico potere.
  2. Essere pazienti non significa lasciare che ci maltrattino continuamente o tollerare aggressioni fisiche o permettere che ci trattino come oggetti. Il problema si pone quando pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette o quando ci collochiamo al centro e aspettiamo unicamente che si faccia la nostra volontà.
    Allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività.
    Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira e alla fine diventeremo persone che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la famiglia si trasformerà in un campo di battaglia. […] L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato.
    Ne “i vincoli che ci uniscono”, al numero 3.5.4 si accentuano alcune virtù: umiltà, semplicità, unione, obbedienza e abnegazione.
    Per aiutare a vivere lo “spirito di famiglia” nella tradizione dell’Istituto si è mantenuta l’espressione delle cosiddette “piccole virtù“.
    Fratel Stéphane elencò e spiegò la cortesia, l’affabilità e condiscendenza, la dissimulazione caritatevole delle mancanze degli altri, l’indulgenza e la pazienza, la stabilità di carattere e la santa gioia, la compassione e l’attenzione nel servizio.
    Egli propose inoltre due mezzi essenziali per coltivarle:
    l’agilità di spirito e la delicatezza di cuore con l’aiuto della grazia divina.
    Per agilità di spirito s’intende la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro tenendo conto della sua età e mentalità, di non credersi in possesso della verità, di mantenere un atteggiamento di simpatia verso l’altro, di rimanere nella calma.
    Per delicatezza di cuore s’intende la condiscendenza e la sollecitudine, l’affabilità nel modo di fare, la fiducia e la gioia.
    Attualmente queste “piccole virtù nazarene” possono esprimersi in una lunga lista aperta di parole:
    accoglienza, aiuto reciproco, gioia, gentilezza, amicizia, amore, armonia, carità, castità, zelo apostolico, collaborazione, impegno, comunicazione, comunione, comprensione, fiducia, contemplazione, conversione, corresponsabilità, costanza, delicatezza, dialogo, discernimento, discrezione, disponibilità, dono di sé, edificazione, ascolto, abnegazione, fedeltà, fraternità, generosità, ospitalità, umiltà, iniziativa, giustizia, lealtà, mortificazione, partecipazione, perseveranza, promozione dell’altro, prudenza, responsabilità, rinuncia, rispetto, semplicità, servizio, silenzio, sincerità, solidarietà, sussidiarietà, lavoro, unione …
    Naturalmente a questi atteggiamenti positivi se ne oppongono altrettanti negativi, contro i quali si dovrà lottare, e che possono sintetizzarsi in:
    egoismo, individualismo, maldicenza, dispersione nelle relazioni e nelle letture, mancanza di comprensione reciproca, incapacità di capire se stessi, mancanza di unione con i Superiori e scarsa pietà.
    Lo “spirito di famiglia” può attraversare momenti di prove dure e tempi di oscurità più o meno lunghi. Mediante il dialogo e la riconciliazione, però, si possono sempre superare. Lo spirito di famiglia può sempre rinascere sotto altre forme con nuove espressioni che si adattano meglio alle culture,[e ai contesti], purché conservi la sua genuina ispirazione.
    In ultimo termine, si tenta di vivere quello che chiediamo nella preghiera della messa della Santa Famiglia: “O Dio, nostro Padre, che nella Santa Famiglia ci hai dato un vero modello di vita, fa’ che nelle nostre famiglie fioriscano le stesse virtù e lo stesso amore, perché, riuniti insieme nella tua casa, possiamo godere la gioia senza fine. ”
    Questa pagina sarebbe sufficiente per fare nostro ciò che propone Amoris laetitia.

Atteggiamento di benevolenza AL 93-94

  1. […] Indica che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. Perciò si traduce come “benevolo”.
  2. Nell’insieme del testo si vede che Paolo vuole insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma che si deve intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”.
    Come diceva Sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole». In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire.
    Tutto questo noi lo ritroviamo ne “i Vincoli che ci uniscono” 3.5.4 . Leggiamolo.

3.3       Un modo di capire la Chiesa: la “famiglia di Dio.”

I laici, quindi, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo il Signore di tutte le cose, è venuto non per essere servito ma per servire (cf. Mt 20, 28), così hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo con l’autorità di Cristo la famiglia di Dio, la conducono al pascolo in modo che sia da tutti adempiuto il nuovo precetto della carità”. (LG 32)
Fratel Stéphane propone di rivolgere lo sguardo a Nazaret per “trovare quelle cinque virtù nelle disposizioni che animavano Gesù, Maria e Giuseppe, sia nelle loro mutue relazioni, sia nelle relazioni con Dio.”
Questa visione porta ad affermare, in armonia con le Costituzioni FSF che:
“L’umiltà, la semplicità e l’obbedienza, l’unione e l’abnegazione reciproche erano l’anima delle relazioni tra Gesù, Maria e Giuseppe ed è precisamente quell’anima che ogni Fratello della Sacra Famiglia, ogni casa dell’Istituto devono cercare di formare e riprodurre affinché Dio Padre possa contemplare con occhi benevoli la nostra Congregazione come compiaciuto guardava la famiglia di Nazaret.”
E dopo alcune considerazioni pratiche, conclude: “Crediamo avere definito lo spirito dell’Istituto: spirito di carità nella forma di spirito di famiglia. Le virtù che lo caratterizzano sono: l’unione e l’abnegazione. Le virtù che lo sostengono sono: l’umiltà, la semplicità e l’obbedienza.
Esso nasce dall’amore a Dio e si completa con un amore profondamente altruista e fraterno verso i nostri Fratelli, in primo luogo e poi, verso il nostro prossimo”.
Fratel Stéphane inoltre propone l’acquisizione di quegli atteggiamenti cristiani, con le espressioni proprie del suo tempo, indicando “che lo spirito di famiglia, deve penetrare l’intelligenza, il cuore, la volontà, la pietà, la virtù, la condotta, lo zelo di tutti i Fratelli, affinché quello spirito si trasformi nella mentalità di tutti e di ognuno di noi.”

Guarendo l’invidia AL 95-96

  1. […] L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io.
    Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro.
  2. […] L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di me che possa godere di un buon momento.
    Questa stessa radice dell’amore, in ogni caso, è quella che mi porta a rifiutare l’ingiustizia per il fatto che alcuni hanno troppo e altri non hanno nulla o quella che mi spinge a far sì che anche quanti sono scartati dalla società possano vivere un po’ di gioia.
    Questo atteggiamento non è invidia, ma desiderio di equità.

Senza vantarsi o gonfiarsi AL 97-98

  1. […] La vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto aggressivo. Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché è centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro. La parola physioutai indica che l’amore non è arrogante. Letteralmente esprime il fatto che non si “ingrandisce” di fronte agli altri e indica qualcosa di più sottile.
    Non è solo un’ossessione per mostrare le proprie qualità, ma fa anche perdere il senso della realtà. Ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più “spirituali” o “saggi”.
  2. […] La logica dell’amore cristiano non è quella di chi si sente superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma quella per cui «chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt 20,27). Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore.
    Questo consiglio Vale anche per la famiglia: «Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili» (1 Pt 5,5).
    Credo che siamo tutti tentati di un po’ di vanagloria. Cerchiamo di apparire più bravi, più buoni, più intelligenti degli altri.
    Questo non è virtù come lo è invece l’incentivo a cercare di imitare quanto c’è di buono negli altri. Per superare questo desiderio di “apparire” è più salutare cercare di imitare quanto ci indica il Papa e quanto ci ricordano i Vincoli che ci uniscono:

3.2.4    Il “Vangelo” della famiglia – In realtà qualunque famiglia, gruppo o comunità che desideri mettere in primo piano la comunione di vita basata su alcune relazioni personali semplici e intime, una vita di lavoro e di umiltà nel quotidiano, aperta alla Parola di Dio e impegnata nella costruzione di un mondo più giusto e più fraterno, può trovare un forte motivo ispiratore e un sostegno solido nella Famiglia di Nazaret.
Da queste realizzazioni concrete, e allo stesso tempo profetiche, lo sguardo può allargarsi verso orizzonti più vasti. Chi cerca di vivere nell’ambito di Nazareth, sa che le maggiori realizzazioni cominciano con le piccole cose.
A questa prospettiva più ampia ci invita Giovanni Paolo II quando afferma nella sua Lettera alle famiglie (n. 13) che “la famiglia è il centro e il cuore della civiltà dell’amore” o quando in una preghiera all’ONU (1995) sviluppò l’idea volta a promuovere una “famiglia di nazioni”, dicendo: “Il concetto di “famiglia” evoca qualcosa che va oltre le relazioni funzionali o alla mera convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sull’appoggio vicendevole e sul rispetto sincero. In un’autentica famiglia non esiste il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, precisamente per la loro debolezza, doppiamente accolti e aiutati.”

Amabilità AL 99-100

  1. Amare significa anche rendersi amabili.
    Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi.
    L’amore detesta far soffrire gli altri.
    La cortesia «è una scuola di sensibilità e disinteresse» che esige dalla persona che «coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere».
    Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò «ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano». Ogni giorno, «entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore».
  2. Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano. Vediamo, per esempio, alcune parole che Gesù diceva alle persone: «Coraggio figlio!» (Mt 9,2). «Grande è la tua fede!» (Mt 15,28). «Alzati!» (Mc 5,41). «Va’ in pace» (Lc 7,50). «Non abbiate paura» (Mt 14,27).
    Non sono parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano. Nella famiglia bisogna imparare questo linguaggio amabile di Gesù.
    Grande è la proposta che troviamo nei “Vincoli che ci uniscono” sull’amabilità:

3.5.3    A Nazaret si amava . La spiritualità SA-FA ha sottolineato nella famiglia di Nazaret alcune caratteristiche dell’amore:

– Un amore esclusivo per il Signore Gesù e pertanto universale rispetto ai fratelli. Maria e Giuseppe sono completamente centrati sull’amore per Dio in Gesù e per ciò pienamente aperti a tutti: Maria sarà invocata come Madre della Chiesa e Giuseppe come il suo Patrono universale…

– Un amore che si manifesta nelle relazioni di affetto dove la sponsalità, la paternità, la maternità, e la filiazione sono ricevute e date come dono, senza pretendere di dominare l’altro. È un amore che non s’impone, con manifestazioni “povere”, ma di contenuto sublime. Questo amore ci insegna a ricevere tutto e ad accogliere tutti come un dono con cuore grato (eucaristico).

– Un amore che si fida della Parola di Dio e contando su di essa offre il proprio dono a Dio e agli altri. Può arrivare così a comprendere l’amore del Padre che tanto ha amato il mondo, noi, che inviò suo Figlio (Gesù) per salvarci e ora ci invia per salvare altri fratelli. In ultima istanza è l’amore che si fida dell’amore del Padre, si fonda su di lui e tenta di renderlo comprensibile, amabile, creatore di vita…

– Un amore fecondo nella disponibilità all’azione e alla presenza dello Spirito Santo. Maria ci ha mostrato di essere “capace” di generare Dio. Maria è la terra fertile che produce il grano più bello, Gesù. Maria e Giuseppe rivelano la fecondità dell’amore morendo a se stessi affinché si realizzi la volontà di Dio.

– Un amore attivo nel desiderio di cercare e trovare Colui che rende più forti gli altri legami di unione. Maria e Giuseppe che ripercorrono il cammino verso il Tempio e che cercano Gesù tra parenti e conoscenti, ci parlano di quella spiritualità del camminare verso coloro che abbiamo perso; della spiritualità della ricerca e del cuore inquieto, fino a che non trova l’amato.

– Un amore servizievole, perché a Nazaret ognuno stava al servizio degli altri.
Un amore verso tutti, ma specialmente verso i bisognosi. Essi che furono poveri, “anawim”, aiutarono quelli che avevano bisogno di loro. Gesù imparò a Nazareth quello che più tardi realizzò nella sua vita pubblica: curare i malati, dare da mangiare,…

– Un amore missionario: Gesù, Maria e Giuseppe, nelle loro relazioni familiari, non solo ci danno indicazioni sulla funzione educativa che ha la nostra missione, ma ci offrono anche uno stimolo per riflettere sulla nostra stessa missione. Il mandato di Gesù: “Andate” (Mt 28,19), è già realizzato da Maria quando visita Elisabetta, e può scorgersi nei diversi viaggi della famiglia nazarena (Maria e Giuseppe vanno a Betlemme per il censimento; la fuga in Egitto; i viaggi al Tempio; i viaggi verso Nazareth). Si direbbe che da un lato la spiritualità della famiglia nazarena è peregrinante e, dall’altro, è stabile: spiritualità “nomade” e “casalinga.” Ma l’importante è che il motivo centrale per mettersi in cammino o rimanere in casa è sempre Gesù e il bene dell’uomo. Matteo termina l’invio in missione con le parole di Gesù: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino a quando questo tempo sarà compiuto” (Mt 28,20). Gesù, come a Nazaret, starà sempre con noi, realizzando quello che significa il “nome” Emmanuel: Dio-con-noi. Possiamo considerare il mondo intero come un’immensa Nazareth, una casa abitata dalla presenza di Gesù. E questo, non solo per trent’anni, ma per sempre. La missione ha come obiettivo fare sì che il mondo sia effettivamente abitato da Gesù, come a Nazareth.

Distacco generoso AL 101-102

  1. Abbiamo detto molte volte che per amare gli altri occorre prima amare sé stessi. Tuttavia, questo inno all’amore afferma che l’amore “non cerca il proprio interesse”, o che “non cerca quello che è suo”. Questa espressione si usa pure in un altro testo: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4).
    Una certa priorità dell’amore per sé stessi può intendersi solamente come una condizione psicologica, in quanto chi è incapace di amare sé stesso incontra difficoltà ad amare gli altri: «Chi è cattivo con sé stesso con chi sarà buono? Nessuno è peggiore di chi danneggia sé stesso» (Sir 14,5-6).
  2. Però lo stesso Tommaso d’Aquino ha spiegato che «è più proprio della carità voler amare che voler essere amati» e che, in effetti, «le madri, che sono quelle che amano di più, cercano più di amare che di essere amate».
    Perciò l’amore può spingersi oltre la giustizia e straripare gratuitamente, «senza sperarne nulla» (Lc 6,35), fino ad arrivare all’amore più grande, che è «dare la vita» per gli altri (Gv 15,13).
    È ancora possibile questa generosità che permette di donare gratuitamente, e di donare sino alla fine? Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).

La chiave di volta la troviamo nell’espressione e nel contenuto del “a Nazareth si amava”.
La fonte è che nella famiglia Trinità il Padre è tutto per il Figlio e il Figlio è tutto per Padre e lo Spirito Santo è la concretizzazione di questa reciprocità d’amore che li unisce.
La famiglia di Nazareth ne è la manifestazione più compiuta su questa terra.
Ognuno dimentica se stesso per l’altro.
E questo è necessario che lo si viva nella famiglia o nella comunità dove noi stessi viviamo.

Senza violenza interiore AL 103-104

  1. Se la prima espressione dell’inno ci invitava alla pazienza che evita di reagire bruscamente di fronte alle debolezze o agli errori degli altri, adesso appare un’altra parola greca – paroxynetai (si adira) – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno.
    Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci.
    L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte a una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impregnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri.
  2. Non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9).
    Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento permanente: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26).
    Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore.
    Quando le cose non vanno bene è comprensibile che scatti spontanea un’ira interiore. Quello che conta è che la si domini. E qui possono venire in aiuto le virtù che diventano “bene-dizione” invece di “male-dizione” verso chi vediamo come nemico.

Perdono AL 105 – 108

  1. Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. La frase logizetai to kakon significa “tiene conto del male”, “se lo porta annotato”, vale a dire, è rancoroso.
    Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi errore dell’altro.
    La giusta rivendicazione dei propri diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una sana difesa della propria dignità.
  2. Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile.
  3. Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e perdonare noi stessi. Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico delle persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l’affetto verso noi stessi. Questo ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall’affetto, a riempirci di paure nelle relazioni interpersonali. Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo. C’è bisogno di pregare con la propria storia, di accettare sé stessi, di saper convivere con i propri limiti, e anche di perdonarsi, per poter avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri.
  4. Ma questo presuppone l’esperienza di essere perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti. Siamo stati raggiunti da un amore previo ad ogni nostra opera, che offre sempre una nuova opportunità, promuove e stimola.Se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi. Diversamente, la nostra vita in famiglia cesserà di essere un luogo di comprensione, accompagnamento e stimolo e diventerà uno spazio di tensione permanente e di reciproco castigo.
    Potremmo lasciarci guidare da due indicazioni riprese da “I Vincoli che ci uniscono”:
    il sacramento della riconciliazione e l’esempio del Fondatore.
    In 2.2.1 parlando de “I sacramenti – la riconciliazione” si afferma che la spiritualità SAFA accentua la connessione tra la celebrazione del Sacramento della riconciliazione e lo sforzo per costruire la comunità ristabilendo o rinforzando le relazioni fraterne, tenendo in conto la dimensione sociale del peccato e integrando questa dimensione nella vita ordinaria.
    “Il sacramento della riconciliazione attualizza la festa del Padre di famiglia quando i suoi figli fanno ritorno a Lui. I Fratelli e i laici legati alla spiritualità SAFA sanno che il perdono accordato agli altri è la condizione per essere perdonati da Dio. Il loro impegno di conversione diventa incontro più intimo con Dio, riconciliazione fraterna, inserimento più profondo nel Corpo di Cristo e appello a un superamento continuo…” (Costituzioni, 133).

Il profilo del Fondatore delineato dai primi Fratelli è un punto di riferimento importante nell’impegno continuo di rinnovamento e di crescita spirituale:

Dalla sua fede viva e illuminata derivarono la sua speranza salda e l’amore per Dio.

Dalla triplice fonte della fede, della speranza, della carità si svilupparono in lui:

– la tenera devozione per i santi Patroni dell’Istituto, Gesù, Maria e Giuseppe;

– la sottomissione alla Chiesa e ai suoi ministri;

– l’attrattiva per le celebrazioni del culto divino;

– la fermezza incrollabile nelle prove e la fiducia in Dio;

– lo spirito di preghiera in cui pose ogni attesa;

– lo zelo divorante per la gloria di Dio e la salvezza delle anime;

– l’umiltà sincera che attira le benedizioni del cielo;

la bontà verso i peccatori pentiti e il perdono delle offese...”.

(Fratel Federico, Vita…e Costituzioni 9).

Rallegrarsi con gli altri AL 109 – 110

  1. L’espressione chairei epi te adikia indica qualcosa di negativo insediato nel segreto del cuore della persona. È l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che si commette ingiustizia verso qualcuno.
    La frase si completa con quella che segue, che si esprime in modo positivo: synchairei te aletheia: si compiace della verità. Vale a dire, si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere.
    Questo è impossibile per chi deve sempre paragonarsi e competere, anche con il proprio coniuge, fino al punto di rallegrarsi segretamente per i suoi fallimenti.
  2. Quando una persona che ama può fare del bene a un altro, o quando vede che all’altro le cose vanno bene, lo vive con gioia e in quel modo dà gloria a Dio, perché «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7) nostro Signore apprezza in modo speciale chi si rallegra della felicità dell’altro.
    Se non alimentiamo la nostra capacità di godere del bene dell’altro e ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia, dal momento che, come ha detto Gesù, «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35).
    La famiglia dev’essere sempre il luogo in cui chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo festeggeranno insieme a lui.
    È veramente grande chi sa gioire dei buoni risultati degli altri e non resta schiavo dell’invidia e della gelosia. I genitori sono felici del buon risultato dei figli. Forse non succede proprio così tra fratelli. Mentre tutti dovremmo essere felici del buon risultato di tutti i componenti la famiglia e la stessa società e la Chiesa. È molto triste il contrario: essere contenti che qualche ecclesiastico e qualche membro delle fraternità o dell’Istituto dia scandalo. D’altra parte, guardare troppo al negativo si corre il rischio di non vedere più il positivo.

Tutto scusa AL 111 – 113

  1. L’elenco si completa con quattro espressioni che parlano di una totalità: “tutto”.
    Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
    In questo modo, si sottolinea con forza il dinamismo contro-culturale dell’amore, capace di far fronte a qualsiasi cosa lo possa minacciare.
  2. In primo luogo si afferma che “tutto scusa” (panta stegei).
    Si differenzia da “non tiene conto del male”, perché questo termine ha a che vedere con l’uso della lingua; può significare “mantenere il silenzio” circa il negativo che può esserci nell’altra persona.
    Implica limitare il giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna dura e implacabile. «Non condannate e non sarete condannati» (Lc 6,37). Benché vada contro il nostro uso abituale della lingua, la Parola di Dio ci chiede: «Non sparlate gli uni degli altri, fratelli» (Gc 4,11).
    Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare.
    Per questo la Parola di Dio è così dura con la lingua, dicendo che è «il mondo del male» che «contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita» (Gc 3,6), «è un male ribelle, è piena di veleno mortale» (Gc 3,8). Se «con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,9), l’amore si prende cura dell’immagine degli altri, con una delicatezza che porta a preservare persino la buona fama dei nemici.
    Nel difendere la legge divina non bisogna mai dimenticare questa esigenza dell’amore.
  3. Gli sposi che si amano e si appartengono, parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. [ … ] Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio. [ … ] il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. [ … ] L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata.
    “Ne uccide più la gola che la spada” si diceva pensando al pericolo della golosità. Ma potremmo dire con più sicurezza “ne uccide più la lingua che la spada”. Le ferite provocate dalla lingua possono risultare incurabili, incancrenire, martirizzare, avvelenare, uccidere. Non si può giocare con la maldicenza. Se c’è un peccato da evitare è l’omicidio e il fratricidio procurato con la maldicenza. Che l’amore fraterno venga coltivato fra noi come l’antidoto più efficace.

Ha fiducia AL 114 – 115

  1. Panta pisteuei: “tutto crede”.
    Per il contesto, non si deve intendere questa “fede” in senso teologico, bensì in quello corrente di “fiducia”. Non si tratta soltanto di non sospettare che l’altro stia mentendo o ingannando. Tale fiducia fondamentale riconosce la luce accesa da Dio che si nasconde dietro l’oscurità, o la brace che arde ancora sotto le ceneri.
  2. Questa stessa fiducia rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. [ … ]. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, una famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna.
    Nei Vincoli viene raccolta questa parola di S. Giovanni Paolo II:

3.2.4 La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sull’appoggio vicendevole e sul rispetto sincero. In un’autentica famiglia non esiste il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, precisamente per la loro debolezza, doppiamente accolti e aiutati. Vale perfettamente per ogni famiglia e per la comunità che desidera vivere come famiglia.

Spera AL 116 – 117

  1. Panta elpizei: non dispera del futuro.
    In connessione con la fiducia, indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare.
    Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra.
  2. Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo. Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile.
    Paolo VI in Evangelica testificatio afferma: “La carità – non dimentichiamolo – deve essere come una operosa speranza di quanto gli altri possono divenire con l’ausilio del nostro sostegno fraterno”(ET 39). Chi non perde la speranza ha una sicura caparra sul futuro di suo fratello o sul coniuge.

Tutto sopporta AL 118 – 119

  1. Panta hypomenei significa che sopporta con spirito positivo tutte le contrarietà. Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore malgrado tutto, anche quando tutto il contesto invita a un’altra cosa. Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare.Questo [atteggiamento] mi ricorda le parole di Martin Luther King, quando ribadiva la scelta dell’amore fraterno anche in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni:
    “La persona che ti odia di più, ha qualcosa di buono dentro di sé; e anche la nazione che più odia, ha qualcosa di buono in sé; anche la razza che più odia, ha qualcosa di buono in sé. E quando arrivi al punto di guardare il volto di ciascun essere umano e vedi molto dentro di lui quello che la religione chiama “immagine di Dio”, cominci ad amarlo nonostante tutto. Non importa quello che fa, tu vedi lì l’immagine di Dio. C’è un elemento di bontà di cui non ti potrai mai sbarazzare […] Un altro modo in cui ami il tuo nemico è questo: quando si presenta l’opportunità di sconfiggere il tuo nemico, quello è il momento nel quale devi decidere di non farlo […] Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni.
    Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte.
    La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male […] Qualcuno deve avere abbastanza fede e moralità per spezzarla e iniettare dentro la stessa struttura dell’universo l’elemento forte e potente dell’amore”.
  2. Nella vita familiare c’è bisogno di coltivare questa forza dell’amore, che permette di lottare contro il male che la minaccia.
    L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa.
    L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, è amore malgrado tutto. A volte ammiro, per esempio, l’atteggiamento di persone che hanno dovuto separarsi dal coniuge per proteggersi dalla violenza fisica e tuttavia, a causa della carità coniugale che sa andare oltre i sentimenti, sono stati capaci di agire per il suo bene, benché attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di difficoltà. Anche questo è amore malgrado tutto.
    Portiamoci dentro questa domanda:
    Quale virtù scegliere come nostra caratteristica per dare al nostro amore quotidiano in famiglia o in comunità il contenuto di una continua e creativa buona notizia?

Torino, Solennità dell’Assunta 2016

a cura di Fratello Lino da Campo


Elogio alla rovescia della Santa Famiglia

 Guardando i quadri e le immaginette che rappresentano una Santa Famiglia così serena, unita e perfetta non possiamo non misurare lo scarto tra questo ideale immaginato e dipinto e la realtà che ci viene comunicata dai vangeli dell’infanzia.
Ancora di più balza all’occhio la distanza tra questa idealizzazione e le nostre famiglie reali, anche le più fortunate, le più sane e le più unite.
Come augurio di Natale, tento un sguardo diverso sulla famiglia di Nazareth, anche se appena abbozzato. Le tolgo il titolo di “santa” o di “sacra” e provo a guardarla come guardo la mia famiglia e le famiglie che conosco. La chiamo per quello che è stata: la famiglia di Giuseppe e Miriam di Nazareth e del loro figlio Gesù.
Di questa famiglia intendo tessere un breve elogio alla rovescia, dicendo tre cose: la famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale; non può essere di conseguenza l’ideale delle nostre famiglie; ma è una buona notizia per le famiglie.

1 – Una famiglia non ideale

La famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale. E’ attraversata da vicende così improbabili, sconvolgenti e rischiose da andare oltre ogni immaginario. Al tempo stesso, quello che succede in questa famiglia fa in qualche modo contatto con le storie ordinarie di tante famiglie del passato e del presente.
Osserviamo le tappe di questa famiglia così come ce le restituiscono i Vangeli dell’infanzia.

– Prima tappa: la gravidanza. I vangeli dell’infanzia di Luca e Matteo sono tutti concentrati a parlarci di Dio che ci viene incontro e sono avari nel descrivere i sentimenti di Miriam e di Giuseppe. Ma nulla ci impedisce di immaginare cosa accadde in loro, quando tutto cominciò, o meglio quando tutto crollò loro addosso: una ragazza da maritare incinta di una gravidanza non attesa, non cercata, non provocata, fuori dal matrimonio. Unica spiegazione: un messaggio venuto dal cielo. Senza spiegazioni da potersi dare l’uno di fronte all’altra; senza argomenti da dire di fronte al paese, alla comunità civile e religiosa di Nazareth. E nella morsa di una legge ebraica che non lascia scampo: Giuseppe deve ripudiare Miriam, Miriam deve essere lapidata.

«Glielo dissi il giorno stesso. Non potevo stare una notte con il segreto. Non trascorrerà intero il giorno sulla rottura della tua alleanza. Eravamo fidanzati. Nella nostra legger è come essere sposati, anche se non ancora nella stessa casa. Ed ecco che ero incinta […] Il mio Josef, bello e compatto da baciarsi le dita, si stringeva le braccia contro il corpo, cercava di tenersi fermo, ripiegato come col mal di pancia. La notizia per lui era una tromba d’aria che scoperchiava il tetto […] Quella notte sognò. Me lo ha raccontato in seguito. Sognò un angelo che gli ordinava il necessario. Al mattino riunì la famiglia e dichiarò la sua decisione; sposava Miriam alla data prevista di settembre, anche se era incinta. Sotto la tenda della cerimonia si sarebbe vista la mia gravidanza. Non ascoltò ragioni. Fu uno scandalo. Il villaggio era contro di lui. “Si è fatto abbindolare da Miriam, gli ha rifilato chissà che storia e lui se l’è bevuta” […] Grandinavano gli insulti sulle sue spalle. Si stava facendo lapidare al posto mio […]

«Le donne di Nazareth mi guardavano la pancia. “La svergognata gliel’ha data a bere ma con noi non la spunta”. “Guardate che aria da santarella”. “Voglio proprio vedere a chi somiglia il bastardo che porta nella pancia”. “Che frottola ha detto? Quella del Salvatore figlio dell’angelo? Sai che risate se nasce femmina”» (ERRI DE LUCA, In nome della madre, Feltrinelli, Milano 2007, 15-29 passim).
* Questa storia assolutamente unica fa però contatto a modo suo con le storie di tante famiglie, con ragazze madri, con madri abbandonate dai mariti, con figli senza padri, con l’arrivo di un figlio disabile, con famiglie chiamate a ridefinirsi, a ricomporre equilibri difficili, a gestire le mentalità moralistiche, a sanare ferite profonde. Famiglie normali, messe alla prova da una vita non attesa, non programmata. Famiglie giudicate, lasciate sole a vivere la loro sofferenza.

– Seconda tappa: il parto. La storia di questa famiglia si snoda dentro un contesto sociale e politico di oppressione e di guerra. Giuseppe, Maria e Gesù vivono in un paese sotto dominio. I Romani fanno sentire il loro potere. Ordinano il censimento, vogliono conoscere ognuno per nome, per imporre il peso delle loro tasse. In un contesto di non libertà, avviene un viaggio d’inverno al nono mese, nessuna casa in cui essere ospitati, il parto senza assistenza, Maria da sola perché agli uomini è proibito assistere. Dopo una gravidanza fuori da ogni norma, un parto fuori da ogni sicurezza, in un clima di oppressione, in un contesto straniero ed ostile. La precarietà più assoluta.
«Josef mi lasciò insieme all’asina fuori di città e partì di corsa. C’era odore di vino. Le cantine di certo avevano anticipato il travaso per averne da vendere ai viandanti. Ero arrivata al giorno, si stavano aprendo le mie acque. Tornò dopo due ore, desolato. Niente, non aveva trovato niente. Nato a Bet Lèhem, era partito bambino per la Galilea. Non aveva un familiare al quale rivolgersi. La città era sottosopra per il ritorno delle famiglie da censire. Ogni casa ospitava parenti venuti da lontano. Si torceva le mani. Aveva implorato, offerto anche l’asina per un letto, niente. C’era solo una minuscola stalla dove c’era un bue. La bestia, almeno lei, accolse bene gli intrusi, io e l’asina» (In della madre, 58-59).

* Eppure questa storia fa contatto a modo suo con famiglie di bambini nati in condizioni di povertà estrema, di mancanza di igiene, senza assistenza. Storie di parti difficili, di madri morte durante il parto. Di bimbi morti prima di venire alla luce. Di famiglie in paesi del mondo sotto l’oppressione di tiranni, costrette a fuggire, senza una casa in cui rifugiarsi. Storie di bimbi e genitori venuti al mondo in tempi difficili, chiamati a vivere la propria vita in condizioni politiche, sociali, economiche di oppressione e di povertà.

Terza tappa: la minaccia della vita e l’esilio. Il Vangelo di Matteo ci racconta la strage degli innocenti. Erode, beffato dai tre magi, nella sua ossessione di potere vuole eliminare ogni possibile concorrente. La famiglia di Nazareth si trova con un bambino minacciato di morte, costretta a fuggire, ad affrontare l’esilio in un paese straniero e storicamente nemico. Perdita del lavoro, della casa, del contesto degli affetti, dei riferimenti religiosi, delle radici, delle tradizioni.

* Questa vicenda, così unica, a modo suo fa contatto con infinite storie di famiglie emigrate, fuggite da situazioni di morte, perite in viaggio, catapultate in situazioni ostili, sradicate e senza riferimenti. Famiglie senza lavoro, senza contesti affettivi a cui aggrapparsi. Storie di milioni di famiglie.

Quarta tappa: la perdita del figlio. Luca racconta l’episodio dello smarrimento di Gesù al tempio. Lo perdono per strada, lo cercano, pensano di averlo trovato e si rendono conto di averlo perso per sempre: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Giuseppe per la seconda volta perde un figlio che non è mai stato suo. Maria, come lo aveva accolto senza averlo cercato, così lo lascia andare dopo averlo atteso e amato.

* Questa vicenda, certo unica, fa contatto con le vicende di tutte le famiglie che perdono i figli, per incidente, per malattia, per droga, o più semplicemente perché il figlio non viene fuori come lo si è immaginato, sognato, educato. Storie di cordoni ombelicali tagliati per la seconda volta con dolore, alcune volte definitivamente. Storie di figli non lasciati mai andare, o al rovescio di figli che non se ne vanno mai. Storie educative fallite, anche se portate avanti con cura. Storie di figli abbandonati, storie di figli che abbandonano. Storie di delusioni per quanto i genitori trasmettono e sembra non sia andato a frutto. Storie di figli che prendono strade senza ritorni.

Quinta tappa: la perdita del padre. Vale la pena accennare a un silenzio del Vangelo, quello sulla sparizione di Giuseppe. Dopo l’episodio del tempio, di lui non si sa più niente. Entra in scena in modo discreto eppure determinante, dando il nome e inserendolo nella discendenza di Davide, impedendo che sia figlio di nessuno. Poi esce di scena, con la stessa discrezione. «Una paternità non ricevuta in dote di natura, ma conquistata sul campo e lì perduta, all’uscita del figlio da casa» (Erri De Luca). Alla perdita del figlio, questa famiglia aggiunge la perdita del padre.

  1. Una famiglia che non è l’ideale della famiglia 

La famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale, quella delle immaginette, dei santini. La famiglia nella quale le cose vanno bene, regna la concordia, la pace e la serenità. Una gravidanza non attesa e fuori dalle regole; il difficile (impossibile?) chiarimento interno alla coppia per un’accoglienza basata sulla sola fiducia, sull’amore; il giudizio della gente; una nascita dentro un contesto di violenza e di precarietà; la minaccia sulla vita nascente; l’esperienza dello sradicamento e dell’esilio; un figlio “diverso”, imprevedibile, che non sta alle attese; la perdita del padre.
Come è possibile imitare una famiglia così? Non è semplice dover preparare l’omelia della festa della Santa Famiglia e altrettanto difficile doverla ascoltare. Dipingere una famiglia ideale a famiglie sempre più in crisi e sentirsela proporre come ideale per le nostre famiglie, delle quali solo noi conosciamo fino in fondo le fatiche, non raramente i drammi.
Non c’è famiglia religiosa femminile o maschile che ha come riferimento la Santa Famiglia che non abbia nella sua tradizione l’elenco delle virtù da imitare in questa famiglia. La mia famiglia religiosa, dei Fratelli della Sacra Famiglia, nella sua tradizione elenca le 5 grandi virtù che animavano Gesù, Maria e Giuseppe sia nelle loro relazioni reciproche che nella loro relazione con Dio: l’umiltà, la semplicità, l’obbedienza, l’unione e l’abnegazione reciproca. A queste 5 segue l’elenco delle “piccole virtù nazarene” che le rinforzano: la cortesia, l’affabilità e condiscendenza, la dissimulazione caritatevole delle mancanze dell’altro, l’indulgenza e la pazienza, la stabilità di carattere e la santa gioia, la compassione e l’attenzione nel servizio. Si tratta di un elenco (di fatto è molto più lungo di questo) in cui viene presentata la mappa degli atteggiamenti positivi vissuti dalla Sacra Famiglia. Questo quadro lascia ammirati, ma anche frustrati.
In questo gioco di idealizzazione della Santa Famiglia e di demoralizzazione di noi stessi, noi facciamo un torto al Vangelo. La Famiglia di Nazareth non può essere un ideale per le nostre famiglie, semplicemente perché la distanza storica e culturale è talmente grande che ogni esercizio di imitazione è improponibile.

  1. La Famiglia di Nazareth: una buona notizia per le famiglie

Eppure accade qualcosa in quella famiglia, così unica e tribolata, che è diventa buona notizia per tutte le famiglie. Così vanno letti i testi di questo tempo di Natale. Una buona notizia per le nostre famiglie. Di questa buona notizia sottolineo tre aspetti.

  1. Nella famiglia di Nazareth è nato per tutti un bambino, l’Emmanuele, la presenza di Dio tra noi. Egli è ormai dentro ogni cuore, dentro ogni famiglia, dentro ogni situazione. Questo bimbo, come si vede bene dai testi natalizi, ha già i titoli pasquali, è il Salvatore, il Signore morto e risorto per noi, il Vivente e a tutti disponibile. Non c’è ormai storia familiare, anche la più difficile e dolorosa, che non sia misteriosamente custodita e salvata da Dio. Non c’è donna, bambino, uomo che non gli stia a cuore e che non possa vivere la sua umanità nella speranza. Più che da imitare, questa famiglia va ringraziata. Va contemplata con gioia e gratitudine, perché ci annuncia che possiamo vivere nella speranza tutto quello che accade nelle nostre famiglie. E lo vive sulla sua pelle.
  2. Il secondo regalo che la Famiglia di Nazareth ci fa è di farci vedere come si fa a fare spazio per accogliere il dono della presenza dell’Emmanuele. Ogni cosa che accade a Maria e Giuseppe è una vicenda di scombussolamento dei loro piani, di imprevisto, e ogni volta essi accettano il cammino della riformulazione, si rimettono a disposizione, si fidano delle possibilità della vita e delle promesse di Dio. Nel testo dell’annuncio a Maria e in quello dell’annuncio a Giuseppe noi possiamo vedere questo modo di stare nella vita, possibile anche per noi. La gravidanza inattesa di Maria porta Giuseppe, uomo giusto, a decidere di ripudiarla in segreto. Nel sogno durante il sonno (l’ascolto nella passività, nella disponibilità al non controllo delle situazioni), Giuseppe si riformula, si rimette diversamente in gioco, prende con sé Maria e dà il nome a Gesù. La mappa delle loro relazioni, apparentemente finita, si riconfigura su un nuovo spazio di vita. Così una storia familiare apparentemente chiusa, si riapre. Le storie delle nostre famiglie, ci dice la famiglia di Nazareth, non le possiamo dominare, far divenire quello che noi vogliamo. Non sono neppure sottratte alla nostra libertà. Possono essere storie familiari sempre aperte, contando sulla risorsa delle presenza di Dio e sulla nostra disponibilità a rimetterci ogni volta in cammino.

E’ questa la seconda buona notizia della Santa Famiglia. Nessuna storia familiare è ormai definitivamente chiusa. La disponibilità a Lui, “chiave della case di Davide” (IS 22,22), riapre imprevedibilmente ogni cammino.

  1. Una presenza su cui puntare (quella dell’Emmanuele), la disponibilità a rimettersi sempre in gioco con fiducia mantenendo aperte le nostre storie familiari, e infine il segreto per fare delle nostre famiglie dei luoghi dove sperimentare la grazia del Vangelo. Questo segreto è contenuto nel versetto di Luca: «Scese con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso» (Lc 2,51). Il verbo greco è “upotassein”. Il più grande tra loro si fa il più piccolo, si mette a loro servizio. E’ una famiglia dalle logiche capovolte. Vengono capovolte le gerarchie, o meglio viene inserita nei rapporti familiari una nuova logica, quella dell’obbedienza reciproca, del servizio vicendevole, dove nessuno è più grande dell’altro, perché il più grande di tutti stava loro sottomesso. Ci ricordiamo le parole che Gesù dirà poi da adulto ai suoi discepoli: «Tra voi non si così… Il più grande tra voi sarà vostro servo» (Mt 23,11). Parlava di sé, del suo modo di essere tra di loro, di essere ormai sempre in mezzo a noi. Paolo, nella sua esortazione alle famiglie, nel capitolo 5 della lettera agli Efesini, riprende lo stesso verbo: upotassein. «Nel timore di Cristo siate sottomessi gli uni agli altri». Riesce così a fare una cosa straordinaria: rispettando una concezione familiare ancora patriarcale, centrata sui maschi, con la presenza di padroni e di schiavi, introduce nella famiglia un principio che fa totalmente esplodere la sua struttura piramidale. «Le mogli siano sottomesse ai mariti, come al Signore… Voi mariti amate le mogli come anche Cristo… Figli obbediti ai vostri genitori nel Signore… Voi padri non esasperate i vostri figli ma fateli crescere negli insegnamenti del Signore… Schiavi obbedite ai vostri padroni terreni come Cristo… Anche voi padroni comportatevi allo stesso modo verso di loro, sapendo che il Signore, loro e vostro, è nei cieli e in lui non c’è preferenza di persone» (Ef 5-6 passim). Alla fine tutti sono sottomessi a tutti, come il Signore a noi.

E’ proprio questo quello che la Famiglia di Nazareth ci indica come via di umanizzazione delle nostre famiglie: la via della reciproca sottomissione, dell’essere gli uni a servizio della vita degli altri. Questo può reggere a tutte le situazioni e può essere la bussola in tutte le vicende.
È questa la terza buona notizia della Santa Famiglia. La riuscita delle nostre famiglia non è legata al fatto che le cose vadano bene, che al loro interno non si vivano difficoltà, fatiche, errori e anche drammi. La riuscita delle nostre famiglie sta nel fatto che ognuno, nel nelle vicende positive e in quelle negative, impegni la sua vita per promuovere la vita degli altri.
La Famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale, non è neppure un ideale da imitare, perché in se stessa unica e inimitabile. E’ però la buona notizia di Dio per noi: ci conferma che la famiglia ideale non c’è, che per tutti c’è una storia complessa da vivere; che non siamo soli, un bimbo è nato nelle nostre famiglie: prendendoci cura di lui, lui si prende cura di noi; possiamo fare di meglio che dominare la vita o pensare che essa ci schiacci: possiamo servirla rimettendoci ogni volta in gioco (sia che succedano cose belle, sia che succedano cose brutte), perché possiamo appoggiarci su una speranza affidabile; ci è indicata la strada del dono di sé reciproco come accoglienza e fecondità del dono di Dio e come via di umanizzazione e di salvezza delle nostre famiglie.
L’augurio di Natale per tutte le nostre famiglie sia dunque proprio questo: accogliamo la buona notizia della famiglia di Nazareth e nella gratitudine viviamo nella speranza le nostre storie familiari. Buon Natale!

Fratel Enzo Biemmi
Fratello della Santa Famiglia