• AL tela della cornice di EG

 

È importante una premessa. AL non è il documento più importante di Papa Francesco, ma è sicuramente il più sensibile. Il documento che ha cambiato la prospettiva della Chiesa è Evangelii gaudium. Il teologo Christoph Theobald, gesuita, afferma che con EG ci troviamo di fronte a un abbozzo di riscrittura del Vaticano II. Sostiene che papa Francesco, rispetto ai suoi predecessori, mostra di avere pienamente assimilato il Concilio e nello stesso tempo sembra avere un rapporto più libero perché sente la necessità di riformularne alcune linee di fondo per il contesto attuale profondamente mutato. Un abbozzo di riscrittura, in attesa di un nuovo Concilio.
Eppure è certo che AL è il più sensibile dei documenti di Papa Francesco, quello che ha suscitato più entusiasmi e più opposizioni, proprio perché applica con grande coerenza la visione di fede, di chiesa e di vangelo propria di EG su un punto concreto e quanto mai delicato, che è quello della famiglia. Applica, come abbiamo visto la “cornice” di EG. E allora quello che in EG poteva apparire innocuo, ora diventa evidente e mette allo scoperto mentalità, visioni, rigidità, paure.
Possiamo dire che AL è la tela che mette in risalto l’importanza della cornice. Di solito è il contrario: la cornice mette in risalto la bellezza della tela. Qui è la tela che fa vedere quanto sia decisiva la cornice, cioè la visione di fondo che abbiamo. Ed è questa visione di fondo che AL ci invita a convertire.

  1. I principi di EG applicati sul tema della famiglia
    Questo cambiamento di sguardo avviene ridefinendo la finalità ultima della missione della chiesa e assumendo due principi guida per l’accompagnamento delle persone. La finalità ultima della missione della chiesa è “pastorale”, intendendo con questa espressione che tutto l’agire della chiesa va inteso come mediazione dell’azione dello Spirito. I due principi guida in questa prospettiva pastorale applicata alla famiglia sono i seguenti: la realtà è più importante dell’idea e il tempo è superiore allo spazio.
  2. a) Prima di tutto la finalità della missione della chiesa è pastorale. La pastoralità può essere così intesa: fare in modo che a tutti, proprio a tutti, giunga l’amore di Dio, la sua misericordia.
    Il compito della Chiesa, l’unico, e quindi il senso di ogni accompagnamento pastorale è quello di favorire «la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia» (EG 27).
    Questa prospettiva pone l’agire della chiesa come diaconia, servizio all’azione dello Spirito. La chiesa è la mediazione perché la grazia di Dio possa agire in tutti, non importa il punto in cui si trovano. L’agire della chiesa come mediazione dello Spirito è messo in atto nella logica del seminatore (Mc 4,3-9), accettando che porti frutto secondo le possibilità di ciascuno. Questo significa che la chiesa fa in modo che in ogni famiglia, anche la più tribolata sia udito e possa essere vissuta la buona notizia del vangelo. In altre parole si tratta non di essere controllori della grazia, ma suoi facilitatori. L’azione della chiesa è una diaconia dello SS.
    La strada concreta di questa diaconia viene percorsa obbedendo ai due principi guidi.
  3. b) Il principio che “la realtà è superiore all’idea”
    Il secondo capitolo di AL, dopo quello biblico che presenta la situazione di famiglie molto umane e concrete, è tutto dedicato a considerare la situazione attuale della famiglia “in tutta la sua complessità, in tutte e sue luci e ombre” (n° 32), “in ordine a tenere i piedi per terra” (n° 6). E viene detto che «l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa» è una «analogia imperfetta» (n° 73). Questa precisazione, a noi che siamo abituati a proporre come modello della famiglia la comunione trinitaria, è fortemente liberante. Si dice che è un modo di dire, una analogia, e per di più imperfetta. In questa linea Papa Francesco non esita a esprimere il mea culpa per l’idealizzazione che in nome dell’idea abbiamo operato sulla realtà:
    «Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario» (AL 36).
    Si vede qui come il rifugiarsi nel mondo dei principi senza farli interagire con la realtà non solo li rende astratti, ma accentua il divario tra il valore e le possibilità umane di ispirarsi ad esso, paralizzando invece che stimolare verso il bene.
    «Non possiamo avere un’idea statica dell’amore, della coppia, della sessualità, della famiglia, non una classificazione ma un accompagnamento. Partire dalla realtà, confrontandola con il Vangelo, integrandola con un’antropologia cristiana. La combinazione di questi due elementi danno la forma, lo stile per una pastorale rinnovata. È una spinta che consegna un compito nelle nostre mani, il compito di accompagnare, discernere, integrare» (Erio Castellucci).
  4. c) Il secondo principio è che il tempo è superiore allo spazio
    Usciamo da un’impostazione pastorale illusoria e giudicante. È il superamento di una visione della realtà a scacchi: bianco e nero, una visione che cerca di collocare le diverse situazioni dentro uno schema (o spazio): regolare-irregolare, vero-falso, buono-cattivo. Questo è uno schema rassicurante perché chi opera queste classificazioni si sente tutelato, lo fa in base alla dottrina. Questo è il cambiamento fondamentale che siamo chiamati a fare. Non è un’invenzione di papa Francesco, ma egli lo pone come punto discriminante della nostra pastorale, una delle sue grandi spinte. Non si tratta di classificare, ma di accompagnare dal punto in cui una persona si trova verso un cammino, verso la meta che, concretamente, in quella situazione, quella persona, quella famiglia può raggiungere. Questo è molto più impegnativo perché, se classificare è un’operazione mentale, accompagnare è un’operazione psicofisica, affettiva, profondamente spirituale: è un’operazione evangelica. Ci è chiesto di arrestarci sulla soglia del cuore delle persone, togliendo le etichette che tanto facilmente sappiamo apporre. Avviare processi, più che possedere spazi, significa dunque passare dalle classificazioni statiche ai cammini : ecco il secondo principio dell’accompagnamento pastorale delle famiglie.
    Oltre una prospettiva oggettiva (conseguenza dei due principi)
    La prospettiva pastorale di EG e i suoi due principi conducono AL ad abbandonare l’approccio deduttivo alle situazioni concrete riguardanti l’amore e la famiglia, e questo sia per le situazioni normali sia per quelle cosiddette “non regolari”. L’approccio deduttivo consiste nel ribadire il valore generale (“non negoziabile”, come ci eravamo abituati a dire), nel trasformalo in una legge di comportamento per tutti e nel codificare la casistica giuridica delle conseguenze qualora questa legge non venga seguita nelle situazioni singole: valore, norma, applicazione della norma, conseguenze della non applicazione della norma, vie di uscita possibili. Il caso dell’amore vissuto da conviventi, da sposati solo civilmente o da persone legate da una seconda unione dopo il divorzio è evidente. L’approccio deduttivo ricorda che per un battezzato solo il sacramento del matrimonio risponde al disegno di Dio e rende moralmente legittimi gli atti matrimoniali, che una seconda unione è contro la volontà di Dio, una situazione che dal punto di vista giuridico è considerata “reato permanente” e di conseguenza rende impossibile l’accesso a due sacramenti fondamentali ( confessione e comunione) e all’esercizio dei ministeri nella comunità ecclesiale (lettori, catechisti, padrini e madrine, insegnanti di religione…), con tutta la casistica che ne segue. L’abbandono di questa prospettiva è ribadita a più riprese. Essa è espressa sia in positivo che in negativo.
  5. a) In positivo:
    «La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» (AL 301).
    b) In negativo:
    «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. Prego caldamente che ricordiamo sempre ciò che insegna san Tommaso d’Aquino e che impariamo ad assimilarlo nel discernimento pastorale: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. […] È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari».

Queste affermazioni vogliono dire che è possibile che qualcuno sia “in stato di grazia” pur essendo in una situazione considerata dal punto di vista oggettivo di “peccato”.

– L’abbandono di un approccio deduttivo/oggettivo dunque è innegabile, ma da cosa viene sostituito nella prospettiva pastorale di AL? Non certamente da un approccio induttivo/soggettivo (il mio comportamento diventa la regola). Il rifiuto di questa scelta è altrettanto netto, ribadito a più riprese: «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (AL 304). Non sono le situazioni concrete a diventare principi e neppure ci si limita ad accondiscendere alle situazioni così come sono, giustificandole con l’argomento della fragilità umana, argomento peraltro molto seduttivo per la cultura attuale connotata da un forte narcisismo. La misericordia non si declina come accondiscendenza alla fragilità e come un colpo di spugna rispetto al passato. Non è una amnistia (che impegna solo chi la concede). Essa domanda di fare verità nei propri percorsi e quando è il caso di avviare il lavoro penitenziale della conversione (AL 78).

– Non dal deduttivo all’induttivo, ma da entrambi questi approcci al “discernimento”. Il termine discernimento appare 35 volte e 10 volte il verbo discernere, termini che intervengono puntualmente ogni qualvolta che si tratta di indicare la via pastorale da seguire, l’agire pastorale della chiesa.

Passare dal deduttivo e dall’induttivo al processo di discernimento è molto più impegnativo per la pastorale, ma anche per l’interpretazione della dottrina.

Dobbiamo dire che per papa Francesco, gesuita, questo è il suo habitus, per noi formati al bianco o nero, è una cosa piuttosto complicata.

  • Il discernimento come criterio dell’accompagnamento pastorale

 

Proprio il discernimento diventa il criterio guida della pastorale di accompagnamento delle famiglie. Proviamo, per brevità di tempo, a considerare come il processo di discernimento inteso come “cura pastorale” (AL 78), viene messo in atto nei confronti dei cristiani che «partecipano alla sua vita [della Chiesa] in modo imperfetto: coloro che semplicemente convivono, coloro che hanno contratto matrimonio soltanto civile, i divorziati risposati». Il punto di riferimento di questo discernimento è “la prospettiva della pedagogia divina” (AL 78).

Mi sembra di individuare quattro passaggi o tappe nell’applicazione del discernimento pastorale di AL.

  1. Il primo consiste nel guardare la situazione per quello che è, dall’interno stesso della situazione (dalla periferia e non dal centro), sospendendo ogni giudizio. Così si constata, ad esempio, che «la scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della semplice convivenza, molto spesso non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti», tra le altre motivi lavorativi o di carattere economico (AL 294; cfr. 40), oppure dall’influenza dell’attuale cultura. Per i separati e divorziati si ricorda che la separazione a volte può diventare moralmente necessaria (241); che i divorziati risposati possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non possono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide» (AL 298). In questo primo passaggio del discernimento si impara a distinguere. Ad es., si dice, una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo (298); altra cosa la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari (298). «I Padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei Pastori deve sempre farsi «distinguendo adeguatamente», con uno sguardo che discerna bene le situazioni. Sappiamo che non esistono “semplici ricette”» (298).
  2. Un secondo passaggio del discernimento è molto fine ed è di sapore prettamente ignaziano. Richiama quello che diceva Sant’Ignazio: saper vedere Dio in tutte le cose. Questo occhio del discernimento è decisivo. Riguarda la capacità di vedere in ogni situazione di amore, anche la meno regolare, la presenza dei segni del Verbo (77), la presenza della grazia di Dio che opera anche nelle vite di queste persone (291). Questo conduce a evidenziare gli elementi di bene su cui appoggiarsi, sui quali fare leva, che possono condurre a una maggiore apertura al vangelo del matrimonio nella sua pienezza (293). Questo primo occhio permette anche al secondo di esercitarsi con la stessa lucidità: proprio perché si vede il bene, si può avere la libertà di denunciare quello che bene non è, quello che nell’amore umano illude e disumanizza, quello che non è frutto dello Spirito. Troviamo la stessa logica presente in EG: dopo il grande sì all’uomo che è l’annuncio del vangelo della gioia (capitolo 1) papa Francesco pronuncia con grande forza i famosi 8 no di EG, che non sono “contro” le persone, ma tutti a favore del sì di Dio all’uomo (capitolo 2). In AL, ad esempio, si dice che «dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia» (AL 298), riferito a determinati divorzi e seconde unioni. Non si ha paura a chiamare le cose con il loro nome di “fragilità e imperfezione” (296). È chiara la denuncia di ideologie e di condizionamenti culturali (201) tipici del narcisismo della cultura del provvisorio (AL 39 particolarmente efficace e vero).
  3. Il terzo passaggio del processo di discernimento nelle situazioni concrete è di accompagnare la persona a partire dal punto in cui si trova, con approfondimento graduale delle esigenze del vangelo (38), perseguendo il bene possibile in quella situazione. Questo cammino richiede due momenti. Il primo è di aiutare a far sì che le persone prendano coscienza della loro situazione davanti a Dio, facciano verità in se stesse (300). Il secondo consiste nel “nutrire i semi del verbo” (76). Per farlo, come dicevamo prima, si tratta di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo [della Chiesa] insegnamento sul matrimonio» (292). In altri termini si tratta di fare alleanza con quei segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio anche nelle situazioni più imperfette (294). Particolarmente significativo è il seguente passaggio: «Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che “un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà”» (305).
  4. L’ultimo passaggio consiste nell’integrare, nel farli partecipi della vita della comunità ecclesiale.
    Non sono scomunicati e formano sempre la comunione ecclesiale, dice il n° 243. «Devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili… Sono battezzati, sono fratelli e sorelle». «Si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale» (297). La fine sensibilità di questa integrazione sta nel riconoscere che «lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti» (299). Il che significa che conviventi, persone sposate solo civilmente, separati, divorziati risposati sono portatori di doni e carismi per il bene di tutti. È chiaro che la prospettiva di Familiaris consortio che era arrivata a dire che non sono scomunicati e che fanno parte della Chiesa (prospettiva che costituiva una cambiamento importante) viene assunta e portata alle sue conseguenze.
    L’integrazione è dunque la finalità ultima di tutto il processo di discernimento pastorale (299). Tale integrazione, come sappiamo, vale anche per i sacramenti (n° 300, nota 336), rispettando sempre la logica dei 4 passaggi del discernimento.
    Il processo di discernimento mira dunque ad accompagnare le persone a illuminare la propria coscienza perché possano vivere la grazia di Dio nella loro situazione, nella misura delle loro possibilità, cioè del bene possibile. E in questo modo la Chiesa fa quello che da sempre nella sua tradizione ha detto: restituisce l’autorità ultima alla coscienza dei credenti, non si sostituisce ad essa ma la accompagna per illuminarla. La Chiesa si sente chiamata a
    « dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (AL 37)Il bene possibile
    Questo processo del discernimento mette in risalto l’obiettivo pastorale ultimo: favorire “il bene possibile”.
    «Senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno, lasciando spazio alla “misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile”» (AL 308).
    In una lettera pastorale alla sua chiesa di Modena, Mons. Castellucci scrive così:
    «Siamo chiamati a passare da una pastorale della perfezione a una pastorale della conversione: dove la meta, la dottrina, rimane la stessa, ma viene evidenziata la necessità di accompagnare verso la meta e non di sedersi alla meta per additare la posizione di chi sta camminando per strada».
    La finezza di AL sta nell’aver trasformato il principio del “male minore” in quello del “bene possibile”. La prima prospettiva tende a limitare i danni e quindi inibisce ricordandoti il tuo limite e il tuo peccato; la seconda ti fa vedere il bene che già vivi e quello che ti sta davanti, e quindi mette le ali, invitandoti a camminare verso un bene sempre più grande, il bene storicamente possibile per te secondo la grazia di Dio. La prima prospettiva aspira, la seconda ispira.

    Uno stile nazareno: accompagnare le famiglie “da fratelli”

    1. Pur essendo AL un invito a tutta la comunità cristiana, possiamo leggerla con occhi nazareni e rimanere contenti di sentire delle sintonie così belle con il nostro carisma e il suo stile, lo stile nazareno. Accompagnare le famiglie con stile nazareno (possiamo dire “da fratelli”) significa far incontrare loro il mistero di Nazaret, questa famiglia concreta nella quale il Figlio di Dio è divenuto figlio nostro. Dio è divenuto progressivamente umano in una famiglia umana, come ciascuno di noi (E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini, Lc 2, 52). La famiglia di Nazaret va però presentata alle famiglie non prima di tutto come modello morale, ma come bella notizia per ogni famiglia e ogni relazione umana. Ci sono due testi di papa Francesco particolarmente significativi sulla famiglia di Nazaret: «Davanti ad ogni famiglia si presenta l’icona della famiglia di Nazaret, con la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi, come quando dovette patire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che si ripete tragicamente ancor oggi in tante famiglie di profughi rifiutati e inermi. Come i magi, le famiglie sono invitate a contemplare il Bambino e la Madre, a prostrarsi e ad adorarlo (cfr Mt 2,11). Come Maria, sono esortate a vivere con coraggio e serenità le loro sfide familiari, tristi ed entusiasmanti, e a custodire e meditare nel cuore le meraviglie di Dio (cfr Lc 2,19.51). Nel tesoro del cuore di Maria ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie, che ella conserva premurosamente. Perciò può aiutarci a interpretarli per riconoscere nella storia familiare il messaggio di Dio» (AL 30).
    Il secondo testo è proprio la conclusione della Esortazione.
    «Come abbiamo ricordato più volte in questa Esortazione, nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare. C’è una chiamata costante che proviene dalla comunione piena della Trinità, dall’unione stupenda tra Cristo e la sua Chiesa, da quella bella comunità che è la famiglia di Nazareth e dalla fraternità senza macchia che esiste tra i santi del cielo. E tuttavia, contemplare la pienezza che non abbiamo ancora raggiunto ci permette anche di relativizzare il cammino storico che stiamo facendo come famiglie, per smettere di pretendere dalle relazioni interpersonali una perfezione, una purezza di intenzioni e una coerenza che potremo trovare solo nel Regno definitivo. Inoltre ci impedisce di giudicare con durezza coloro che vivono in condizioni di grande fragilità. Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (AL 325).
    Accompagnare con stile nazareno le famiglie significa comunicare loro una spiritualità del cammino e non una spiritualità della perfezione. Potremmo dire una spiritualità dell’incarnazione, non una idealità disincarnata. E quindi una santa Famiglia che, prima di essere un santino da imitare, è l’annuncio che Dio si è fatto progressivamente umano in una famiglia, non è arrivato sulla terra “già tutto fatto”, ma è cresciuto in sapienza, età e grazia. La bella notizia della famiglia di Nazaret è che questo figlio ora è in ogni famiglia umana, in ogni relazione anche la più incompiuta per accompagnarla, per farla crescere verso il bene possibile.

  5. Un secondo aspetto è importante. Non possiamo accompagnare altri se non rivediamo la nostra formazione morale e spirituale
    Siamo figli di un’educazione moralistica, che distingue nettamente tra bene e male e non siamo abituati ad abitare il grigio della vita. Accompagnare le famiglie suppone che ci interroghiamo su noi stessi, su come sappiamo vivere i nostri limiti senza appiattirci su di essi, ma facendo pace con le nostre ombre, perché questo ci aiuta a camminare. Noi proietteremo sugli altri il nostro mondo interiore. Dobbiamo rivedere dunque la nostra educazione morale, e quindi la nostra immagine di Dio, e di conseguenza il giudizio che portiamo sui nostri fratelli e sorelle.

Il vescovo di Modena, Erio Castellucci, scrive nel suo progetto pastorale:
«Data la grande varietà delle situazioni, anche in riferimento alla diversità delle culture e delle tradizioni, il Papa ha lasciato ai singoli vescovi – cioè alle singole chiese – il compito di stabilire degli itinerari, fornendo alcuni criteri per il discernimento. Questa decisione è certamente scomoda, perché istintivamente avremmo preferito una risposta netta dal Papa: sì o no. Ma una risposta simile sarebbe stata nella logica dello spazio e non del tempo: avrebbe cioè semmai spostato l’asticella verso un’ulteriore possibilità oppure l’avrebbe mantenuta dove è ora; in entrambi i casi, avrebbe risposto alla domanda immediata “si può o non si può?”. Invece papa Francesco vuole metterci in cammino e non intende ricadere nella semplice casistica, nello schema spaziale in cui inevitabilmente si ritrovano insieme coloro che in nome della verità e della norma oggettiva dicono subito di “no” e coloro che, al contrario, in nome della carità e della comprensione soggettiva dicono subito di “sì”. In entrambi i casi, la partita si risolve come su di una scacchiera: o bianco o nero. È decisivo, piuttosto, che le persone si mettano in cammino, che accettino la sfida del tempo, che non pretendano la facile soluzione immediata. Solo un percorso accompagnato può aiutare a discernere le singole esperienze e situazioni. Un percorso che non coinvolge solo le persone divorziate e conviventi e neppure solamente coloro che guideranno questi percorsi, ma anche, e forse ancora prima, le comunità cristiane chiamate ad accompagnare, discernere e integrare».
Di questo testo sottolineo due passaggi: il primo è quello che riguarda l’esito uguale di chi sta nella logica dello spazio e non del tempo. È un esito uguale e opposto: dire subito di sì e dire subito di no. Questo atteggiamento non aiuta: né l’accondiscendenza superficiale, né la rigidità aiutano a camminare. Entrambe bloccano nel punto in cui uno si trova. L’altro aspetto è che per uscire da questa mentalità è necessario un percorso che riguarda prima di tutta le comunità che accompagnano, non prima di tutto le persone accompagnate. Per me questo è uno spazio formativo che dovremmo riaprire, come singoli e come comunità, rivisitando le nostre storie di vita. Dobbiamo rifare la nostra formazione morale. Noi siamo gli uomini del dovere e dell’impegno. Siamo chiamati non a buttare via questo, ma a ricomprenderlo nel segno della grazia.
Accompagnare in stile nazareno le famiglie non è pensare che sono le famiglie a dover cambiare, ma che accettiamo di cambiare la nostra mentalità insieme a loro. Non dunque “per le famiglie”, ma “con le famiglie”.

fratel Enzo Biemmi

  1. AL tela della cornice di EG
  2.  È importante una premessa. AL non è il documento più importante di Papa Francesco, ma è sicuramente il più sensibile. Il documento che ha cambiato la prospettiva della Chiesa è Evangelii gaudium. Il teologo Christoph Theobald, gesuita, afferma che con EG ci troviamo di fronte a un abbozzo di riscrittura del Vaticano II. Sostiene che papa Francesco, rispetto ai suoi predecessori, mostra di avere pienamente assimilato il Concilio e nello stesso tempo sembra avere un rapporto più libero perché sente la necessità di riformularne alcune linee di fondo per il contesto attuale profondamente mutato. Un abbozzo di riscrittura, in attesa di un nuovo Concilio.
    Eppure è certo che AL è il più sensibile dei documenti di Papa Francesco, quello che ha suscitato più entusiasmi e più opposizioni, proprio perché applica con grande coerenza la visione di fede, di chiesa e di vangelo propria di EG su un punto concreto e quanto mai delicato, che è quello della famiglia. Applica, come abbiamo visto la “cornice” di EG. E allora quello che in EG poteva apparire innocuo, ora diventa evidente e mette allo scoperto mentalità, visioni, rigidità, paure.
    Possiamo dire che AL è la tela che mette in risalto l’importanza della cornice. Di solito è il contrario: la cornice mette in risalto la bellezza della tela. Qui è la tela che fa vedere quanto sia decisiva la cornice, cioè la visione di fondo che abbiamo. Ed è questa visione di fondo che AL ci invita a convertire.
  3. I principi di EG applicati sul tema della famiglia
    Questo cambiamento di sguardo avviene ridefinendo la finalità ultima della missione della chiesa e assumendo due principi guida per l’accompagnamento delle persone. La finalità ultima della missione della chiesa è “pastorale”, intendendo con questa espressione che tutto l’agire della chiesa va inteso come mediazione dell’azione dello Spirito. I due principi guida in questa prospettiva pastorale applicata alla famiglia sono i seguenti: la realtà è più importante dell’idea e il tempo è superiore allo spazio.
  4. a) Prima di tutto la finalità della missione della chiesa è pastorale. La pastoralità può essere così intesa: fare in modo che a tutti, proprio a tutti, giunga l’amore di Dio, la sua misericordia.
    Il compito della Chiesa, l’unico, e quindi il senso di ogni accompagnamento pastorale è quello di favorire «la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia» (EG 27).
    Questa prospettiva pone l’agire della chiesa come diaconia, servizio all’azione dello Spirito. La chiesa è la mediazione perché la grazia di Dio possa agire in tutti, non importa il punto in cui si trovano. L’agire della chiesa come mediazione dello Spirito è messo in atto nella logica del seminatore (Mc 4,3-9), accettando che porti frutto secondo le possibilità di ciascuno. Questo significa che la chiesa fa in modo che in ogni famiglia, anche la più tribolata sia udito e possa essere vissuta la buona notizia del vangelo. In altre parole si tratta non di essere controllori della grazia, ma suoi facilitatori. L’azione della chiesa è una diaconia dello SS.
    La strada concreta di questa diaconia viene percorsa obbedendo ai due principi guidi.
  5. b) Il principio che “la realtà è superiore all’idea”
    Il secondo capitolo di AL, dopo quello biblico che presenta la situazione di famiglie molto umane e concrete, è tutto dedicato a considerare la situazione attuale della famiglia “in tutta la sua complessità, in tutte e sue luci e ombre” (n° 32), “in ordine a tenere i piedi per terra” (n° 6). E viene detto che «l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa» è una «analogia imperfetta» (n° 73). Questa precisazione, a noi che siamo abituati a proporre come modello della famiglia la comunione trinitaria, è fortemente liberante. Si dice che è un modo di dire, una analogia, e per di più imperfetta. In questa linea Papa Francesco non esita a esprimere il mea culpa per l’idealizzazione che in nome dell’idea abbiamo operato sulla realtà:
    «Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario» (AL 36).
    Si vede qui come il rifugiarsi nel mondo dei principi senza farli interagire con la realtà non solo li rende astratti, ma accentua il divario tra il valore e le possibilità umane di ispirarsi ad esso, paralizzando invece che stimolare verso il bene.
    «Non possiamo avere un’idea statica dell’amore, della coppia, della sessualità, della famiglia, non una classificazione ma un accompagnamento. Partire dalla realtà, confrontandola con il Vangelo, integrandola con un’antropologia cristiana. La combinazione di questi due elementi danno la forma, lo stile per una pastorale rinnovata. È una spinta che consegna un compito nelle nostre mani, il compito di accompagnare, discernere, integrare» (Erio Castellucci).
  6. c) Il secondo principio è che il tempo è superiore allo spazio
    Usciamo da un’impostazione pastorale illusoria e giudicante. È il superamento di una visione della realtà a scacchi: bianco e nero, una visione che cerca di collocare le diverse situazioni dentro uno schema (o spazio): regolare-irregolare, vero-falso, buono-cattivo. Questo è uno schema rassicurante perché chi opera queste classificazioni si sente tutelato, lo fa in base alla dottrina. Questo è il cambiamento fondamentale che siamo chiamati a fare. Non è un’invenzione di papa Francesco, ma egli lo pone come punto discriminante della nostra pastorale, una delle sue grandi spinte. Non si tratta di classificare, ma di accompagnare dal punto in cui una persona si trova verso un cammino, verso la meta che, concretamente, in quella situazione, quella persona, quella famiglia può raggiungere. Questo è molto più impegnativo perché, se classificare è un’operazione mentale, accompagnare è un’operazione psicofisica, affettiva, profondamente spirituale: è un’operazione evangelica. Ci è chiesto di arrestarci sulla soglia del cuore delle persone, togliendo le etichette che tanto facilmente sappiamo apporre. Avviare processi, più che possedere spazi, significa dunque passare dalle classificazioni statiche ai cammini : ecco il secondo principio dell’accompagnamento pastorale delle famiglie.
    Oltre una prospettiva oggettiva (conseguenza dei due principi)
    La prospettiva pastorale di EG e i suoi due principi conducono AL ad abbandonare l’approccio deduttivo alle situazioni concrete riguardanti l’amore e la famiglia, e questo sia per le situazioni normali sia per quelle cosiddette “non regolari”. L’approccio deduttivo consiste nel ribadire il valore generale (“non negoziabile”, come ci eravamo abituati a dire), nel trasformalo in una legge di comportamento per tutti e nel codificare la casistica giuridica delle conseguenze qualora questa legge non venga seguita nelle situazioni singole: valore, norma, applicazione della norma, conseguenze della non applicazione della norma, vie di uscita possibili. Il caso dell’amore vissuto da conviventi, da sposati solo civilmente o da persone legate da una seconda unione dopo il divorzio è evidente. L’approccio deduttivo ricorda che per un battezzato solo il sacramento del matrimonio risponde al disegno di Dio e rende moralmente legittimi gli atti matrimoniali, che una seconda unione è contro la volontà di Dio, una situazione che dal punto di vista giuridico è considerata “reato permanente” e di conseguenza rende impossibile l’accesso a due sacramenti fondamentali ( confessione e comunione) e all’esercizio dei ministeri nella comunità ecclesiale (lettori, catechisti, padrini e madrine, insegnanti di religione…), con tutta la casistica che ne segue. L’abbandono di questa prospettiva è ribadita a più riprese. Essa è espressa sia in positivo che in negativo.
  7. a) In positivo:
    «La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» (AL 301).
    b) In negativo:
    «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. Prego caldamente che ricordiamo sempre ciò che insegna san Tommaso d’Aquino e che impariamo ad assimilarlo nel discernimento pastorale: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. […] È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari».

Queste affermazioni vogliono dire che è possibile che qualcuno sia “in stato di grazia” pur essendo in una situazione considerata dal punto di vista oggettivo di “peccato”.

– L’abbandono di un approccio deduttivo/oggettivo dunque è innegabile, ma da cosa viene sostituito nella prospettiva pastorale di AL? Non certamente da un approccio induttivo/soggettivo (il mio comportamento diventa la regola). Il rifiuto di questa scelta è altrettanto netto, ribadito a più riprese: «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (AL 304). Non sono le situazioni concrete a diventare principi e neppure ci si limita ad accondiscendere alle situazioni così come sono, giustificandole con l’argomento della fragilità umana, argomento peraltro molto seduttivo per la cultura attuale connotata da un forte narcisismo. La misericordia non si declina come accondiscendenza alla fragilità e come un colpo di spugna rispetto al passato. Non è una amnistia (che impegna solo chi la concede). Essa domanda di fare verità nei propri percorsi e quando è il caso di avviare il lavoro penitenziale della conversione (AL 78).

– Non dal deduttivo all’induttivo, ma da entrambi questi approcci al “discernimento”. Il termine discernimento appare 35 volte e 10 volte il verbo discernere, termini che intervengono puntualmente ogni qualvolta che si tratta di indicare la via pastorale da seguire, l’agire pastorale della chiesa.

Passare dal deduttivo e dall’induttivo al processo di discernimento è molto più impegnativo per la pastorale, ma anche per l’interpretazione della dottrina.

Dobbiamo dire che per papa Francesco, gesuita, questo è il suo habitus, per noi formati al bianco o nero, è una cosa piuttosto complicata.

  1. Il discernimento come criterio dell’accompagnamento pastorale

Proprio il discernimento diventa il criterio guida della pastorale di accompagnamento delle famiglie. Proviamo, per brevità di tempo, a considerare come il processo di discernimento inteso come “cura pastorale” (AL 78), viene messo in atto nei confronti dei cristiani che «partecipano alla sua vita [della Chiesa] in modo imperfetto: coloro che semplicemente convivono, coloro che hanno contratto matrimonio soltanto civile, i divorziati risposati». Il punto di riferimento di questo discernimento è “la prospettiva della pedagogia divina” (AL 78).

Mi sembra di individuare quattro passaggi o tappe nell’applicazione del discernimento pastorale di AL.

  1. Il primo consiste nel guardare la situazione per quello che è, dall’interno stesso della situazione (dalla periferia e non dal centro), sospendendo ogni giudizio. Così si constata, ad esempio, che «la scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della semplice convivenza, molto spesso non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti», tra le altre motivi lavorativi o di carattere economico (AL 294; cfr. 40), oppure dall’influenza dell’attuale cultura. Per i separati e divorziati si ricorda che la separazione a volte può diventare moralmente necessaria (241); che i divorziati risposati possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non possono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide» (AL 298). In questo primo passaggio del discernimento si impara a distinguere. Ad es., si dice, una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo (298); altra cosa la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari (298). «I Padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei Pastori deve sempre farsi «distinguendo adeguatamente», con uno sguardo che discerna bene le situazioni. Sappiamo che non esistono “semplici ricette”» (298).
  2. Un secondo passaggio del discernimento è molto fine ed è di sapore prettamente ignaziano. Richiama quello che diceva Sant’Ignazio: saper vedere Dio in tutte le cose. Questo occhio del discernimento è decisivo. Riguarda la capacità di vedere in ogni situazione di amore, anche la meno regolare, la presenza dei segni del Verbo (77), la presenza della grazia di Dio che opera anche nelle vite di queste persone (291). Questo conduce a evidenziare gli elementi di bene su cui appoggiarsi, sui quali fare leva, che possono condurre a una maggiore apertura al vangelo del matrimonio nella sua pienezza (293). Questo primo occhio permette anche al secondo di esercitarsi con la stessa lucidità: proprio perché si vede il bene, si può avere la libertà di denunciare quello che bene non è, quello che nell’amore umano illude e disumanizza, quello che non è frutto dello Spirito. Troviamo la stessa logica presente in EG: dopo il grande sì all’uomo che è l’annuncio del vangelo della gioia (capitolo 1) papa Francesco pronuncia con grande forza i famosi 8 no di EG, che non sono “contro” le persone, ma tutti a favore del sì di Dio all’uomo (capitolo 2). In AL, ad esempio, si dice che «dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia» (AL 298), riferito a determinati divorzi e seconde unioni. Non si ha paura a chiamare le cose con il loro nome di “fragilità e imperfezione” (296). È chiara la denuncia di ideologie e di condizionamenti culturali (201) tipici del narcisismo della cultura del provvisorio (AL 39 particolarmente efficace e vero).
  3. Il terzo passaggio del processo di discernimento nelle situazioni concrete è di accompagnare la persona a partire dal punto in cui si trova, con approfondimento graduale delle esigenze del vangelo (38), perseguendo il bene possibile in quella situazione. Questo cammino richiede due momenti. Il primo è di aiutare a far sì che le persone prendano coscienza della loro situazione davanti a Dio, facciano verità in se stesse (300). Il secondo consiste nel “nutrire i semi del verbo” (76). Per farlo, come dicevamo prima, si tratta di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo [della Chiesa] insegnamento sul matrimonio» (292). In altri termini si tratta di fare alleanza con quei segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio anche nelle situazioni più imperfette (294). Particolarmente significativo è il seguente passaggio: «Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che “un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà”» (305).
  4. L’ultimo passaggio consiste nell’integrare, nel farli partecipi della vita della comunità ecclesiale.
    Non sono scomunicati e formano sempre la comunione ecclesiale, dice il n° 243. «Devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili… Sono battezzati, sono fratelli e sorelle». «Si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale» (297). La fine sensibilità di questa integrazione sta nel riconoscere che «lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti» (299). Il che significa che conviventi, persone sposate solo civilmente, separati, divorziati risposati sono portatori di doni e carismi per il bene di tutti. È chiaro che la prospettiva di Familiaris consortio che era arrivata a dire che non sono scomunicati e che fanno parte della Chiesa (prospettiva che costituiva una cambiamento importante) viene assunta e portata alle sue conseguenze.
    L’integrazione è dunque la finalità ultima di tutto il processo di discernimento pastorale (299). Tale integrazione, come sappiamo, vale anche per i sacramenti (n° 300, nota 336), rispettando sempre la logica dei 4 passaggi del discernimento.
    Il processo di discernimento mira dunque ad accompagnare le persone a illuminare la propria coscienza perché possano vivere la grazia di Dio nella loro situazione, nella misura delle loro possibilità, cioè del bene possibile. E in questo modo la Chiesa fa quello che da sempre nella sua tradizione ha detto: restituisce l’autorità ultima alla coscienza dei credenti, non si sostituisce ad essa ma la accompagna per illuminarla. La Chiesa si sente chiamata a
    « dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (AL 37)Il bene possibile
    Questo processo del discernimento mette in risalto l’obiettivo pastorale ultimo: favorire “il bene possibile”.
    «Senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno, lasciando spazio alla “misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile”» (AL 308).
    In una lettera pastorale alla sua chiesa di Modena, Mons. Castellucci scrive così:
    «Siamo chiamati a passare da una pastorale della perfezione a una pastorale della conversione: dove la meta, la dottrina, rimane la stessa, ma viene evidenziata la necessità di accompagnare verso la meta e non di sedersi alla meta per additare la posizione di chi sta camminando per strada».
    La finezza di AL sta nell’aver trasformato il principio del “male minore” in quello del “bene possibile”. La prima prospettiva tende a limitare i danni e quindi inibisce ricordandoti il tuo limite e il tuo peccato; la seconda ti fa vedere il bene che già vivi e quello che ti sta davanti, e quindi mette le ali, invitandoti a camminare verso un bene sempre più grande, il bene storicamente possibile per te secondo la grazia di Dio. La prima prospettiva aspira, la seconda ispira.

    Uno stile nazareno: accompagnare le famiglie “da fratelli”

    1. Pur essendo AL un invito a tutta la comunità cristiana, possiamo leggerla con occhi nazareni e rimanere contenti di sentire delle sintonie così belle con il nostro carisma e il suo stile, lo stile nazareno. Accompagnare le famiglie con stile nazareno (possiamo dire “da fratelli”) significa far incontrare loro il mistero di Nazaret, questa famiglia concreta nella quale il Figlio di Dio è divenuto figlio nostro. Dio è divenuto progressivamente umano in una famiglia umana, come ciascuno di noi (E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini, Lc 2, 52). La famiglia di Nazaret va però presentata alle famiglie non prima di tutto come modello morale, ma come bella notizia per ogni famiglia e ogni relazione umana. Ci sono due testi di papa Francesco particolarmente significativi sulla famiglia di Nazaret: «Davanti ad ogni famiglia si presenta l’icona della famiglia di Nazaret, con la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi, come quando dovette patire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che si ripete tragicamente ancor oggi in tante famiglie di profughi rifiutati e inermi. Come i magi, le famiglie sono invitate a contemplare il Bambino e la Madre, a prostrarsi e ad adorarlo (cfr Mt 2,11). Come Maria, sono esortate a vivere con coraggio e serenità le loro sfide familiari, tristi ed entusiasmanti, e a custodire e meditare nel cuore le meraviglie di Dio (cfr Lc 2,19.51). Nel tesoro del cuore di Maria ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie, che ella conserva premurosamente. Perciò può aiutarci a interpretarli per riconoscere nella storia familiare il messaggio di Dio» (AL 30).
    Il secondo testo è proprio la conclusione della Esortazione.
    «Come abbiamo ricordato più volte in questa Esortazione, nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare. C’è una chiamata costante che proviene dalla comunione piena della Trinità, dall’unione stupenda tra Cristo e la sua Chiesa, da quella bella comunità che è la famiglia di Nazareth e dalla fraternità senza macchia che esiste tra i santi del cielo. E tuttavia, contemplare la pienezza che non abbiamo ancora raggiunto ci permette anche di relativizzare il cammino storico che stiamo facendo come famiglie, per smettere di pretendere dalle relazioni interpersonali una perfezione, una purezza di intenzioni e una coerenza che potremo trovare solo nel Regno definitivo. Inoltre ci impedisce di giudicare con durezza coloro che vivono in condizioni di grande fragilità. Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (AL 325).
    Accompagnare con stile nazareno le famiglie significa comunicare loro una spiritualità del cammino e non una spiritualità della perfezione. Potremmo dire una spiritualità dell’incarnazione, non una idealità disincarnata. E quindi una santa Famiglia che, prima di essere un santino da imitare, è l’annuncio che Dio si è fatto progressivamente umano in una famiglia, non è arrivato sulla terra “già tutto fatto”, ma è cresciuto in sapienza, età e grazia. La bella notizia della famiglia di Nazaret è che questo figlio ora è in ogni famiglia umana, in ogni relazione anche la più incompiuta per accompagnarla, per farla crescere verso il bene possibile.

  5. Un secondo aspetto è importante. Non possiamo accompagnare altri se non rivediamo la nostra formazione morale e spirituale
    Siamo figli di un’educazione moralistica, che distingue nettamente tra bene e male e non siamo abituati ad abitare il grigio della vita. Accompagnare le famiglie suppone che ci interroghiamo su noi stessi, su come sappiamo vivere i nostri limiti senza appiattirci su di essi, ma facendo pace con le nostre ombre, perché questo ci aiuta a camminare. Noi proietteremo sugli altri il nostro mondo interiore. Dobbiamo rivedere dunque la nostra educazione morale, e quindi la nostra immagine di Dio, e di conseguenza il giudizio che portiamo sui nostri fratelli e sorelle.

Il vescovo di Modena, Erio Castellucci, scrive nel suo progetto pastorale:
«Data la grande varietà delle situazioni, anche in riferimento alla diversità delle culture e delle tradizioni, il Papa ha lasciato ai singoli vescovi – cioè alle singole chiese – il compito di stabilire degli itinerari, fornendo alcuni criteri per il discernimento. Questa decisione è certamente scomoda, perché istintivamente avremmo preferito una risposta netta dal Papa: sì o no. Ma una risposta simile sarebbe stata nella logica dello spazio e non del tempo: avrebbe cioè semmai spostato l’asticella verso un’ulteriore possibilità oppure l’avrebbe mantenuta dove è ora; in entrambi i casi, avrebbe risposto alla domanda immediata “si può o non si può?”. Invece papa Francesco vuole metterci in cammino e non intende ricadere nella semplice casistica, nello schema spaziale in cui inevitabilmente si ritrovano insieme coloro che in nome della verità e della norma oggettiva dicono subito di “no” e coloro che, al contrario, in nome della carità e della comprensione soggettiva dicono subito di “sì”. In entrambi i casi, la partita si risolve come su di una scacchiera: o bianco o nero. È decisivo, piuttosto, che le persone si mettano in cammino, che accettino la sfida del tempo, che non pretendano la facile soluzione immediata. Solo un percorso accompagnato può aiutare a discernere le singole esperienze e situazioni. Un percorso che non coinvolge solo le persone divorziate e conviventi e neppure solamente coloro che guideranno questi percorsi, ma anche, e forse ancora prima, le comunità cristiane chiamate ad accompagnare, discernere e integrare».
Di questo testo sottolineo due passaggi: il primo è quello che riguarda l’esito uguale di chi sta nella logica dello spazio e non del tempo. È un esito uguale e opposto: dire subito di sì e dire subito di no. Questo atteggiamento non aiuta: né l’accondiscendenza superficiale, né la rigidità aiutano a camminare. Entrambe bloccano nel punto in cui uno si trova. L’altro aspetto è che per uscire da questa mentalità è necessario un percorso che riguarda prima di tutta le comunità che accompagnano, non prima di tutto le persone accompagnate. Per me questo è uno spazio formativo che dovremmo riaprire, come singoli e come comunità, rivisitando le nostre storie di vita. Dobbiamo rifare la nostra formazione morale. Noi siamo gli uomini del dovere e dell’impegno. Siamo chiamati non a buttare via questo, ma a ricomprenderlo nel segno della grazia.
Accompagnare in stile nazareno le famiglie non è pensare che sono le famiglie a dover cambiare, ma che accettiamo di cambiare la nostra mentalità insieme a loro. Non dunque “per le famiglie”, ma “con le famiglie”.

fratel Enzo Biemmi